lunedì 31 ottobre 2016

MADRE E FIGLIA BARBARAMENTE UCCISE AL CIMITERO DAVANTI ALLA TOMBA DI UN CONGIUNTO - É SUCCESSO A SAN LORENZO DEL VALLO

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foto zoom24.it

SAN LORENZO DEL VALLO È stata giustiziata davanti alla tomba di quel figlio morto troppo presto, troppo giovane, trenta anni fa, in un incidente d’auto. I proiettili hanno raggiunto alle spalle Edda Costabile, 77 anni, mentre porgeva gli onori ai defunti davanti alla cappella di famiglia. L'hanno trovata riversa su un fianco, il cappuccio del giaccone sulla testa. Sua figlia Ida, 52 anni, invece, ha capito, ha sentito l’orrore di quel momento, ha cercato inutilmente di fuggire tra il dedalo di lapidi del cimitero di San Lorenzo del Vallo. Erano cinque i componenti della famiglia Attanasio. Sono rimasti in due, un padre e un figlio, Francesco, arrestato a maggio per omicidio. E da quell’omicidio, è una delle ipotesi, potrebbe essere scaturita la furia che ha travolto le due donne domenica mattina, intorno alle 10, in un cimitero affollato alla vigilia della commemorazione dei defunti. Era una famiglia tranquilla, raccontano in paese, quella degli Attanasio. Padre e madre insegnanti ormai in pensione. La madre, in particolare, viene descritta come una brava maestra, ben voluta dagli alunni e nel paesino. Ida viveva a Tarsia, era arrivata in paese per accompagnare sua madre e porgere un saluto al fratello defunto. Nella casa di San Lorenzo del Vallo resta un uomo distrutto che già da tempo non si dava pace per l’arresto del figlio Francesco, accusato dell’omicidio di Damiano Galizia, personaggio ritenuto dagli investigatori come gravitante in ambienti legati alla criminalità organizzata. Un grosso debito, contratto da Francesco Attanasio, ha scatenato il delitto. Il corpo di Damiano Galizia, scomparso il 26 aprile, venne trovato senza vita in un appartamento di contrada Dattoli a Rende. Attanasio viene arrestato il primo maggio, confessa di avere ucciso Galizia con una Beretta calibro 9, dopo che questi lo avrebbe dileggiato e preso a schiaffi per farsi restitutire i soldi. Per quel figlio finito in galera, il padre non prendeva pace. Quel figlio che si era occupato di turismo, che aveva fatto il giornalista, che si era candidato anni fa come consigliere regionale nelle liste di Callipo, che aveva portato avanti diverse attività, che portava il nome di quel fratello mai conosciuto e morto troppo presto.
LA TOMBA BRUCIATA Il cimitero è blindato. Cancelli chiusi e presidio dei carabinieri. La scena del crimine è presidiata mentre si attende l’arrivo del medico legale. Significa che i due corpi sono ancora a terra, uno davanti alla cappella di famiglia e l’altro più avanti. Quella stessa cappella che, due giorni dopo l’arresto di Francesco Attanasio, era stata incendiata da ignoti, nella notte, con liquido infiammabile. Al cimitero si arriva attraverso una leggera salita, è circondato da uliveti e campi coltivati. Anche qui c’è cura e pulizia. Sul limitare di un uliveto sono state piantate delle rose. È la stradina dove fu trovato scooter dei killer di Gaetano De Marco. In mezzo a tanta cura e tanto decoro cova una carica atomica efferata e sanguinaria.
LA STRAGE DELLE DONNE Le strade di San Lorenzo del Vallo sono curate, pulite. All’ingresso del paese un cartello di benvenuto indica la zona come “località turistica collinare”. La fertile valle dell’Esaro è circodata da campi arati, uliveti e agrumeti. All’ora di pranzo c’è silenzio e deserto, solo qualche fioraio ha le saracinesce ancora alzate. La strada che conduce al cimitero, però, rinverdisce tragici ricordi. C’è la piazzetta nella quale venne ucciso Gaetano De Marco. Era l’aprile del 2011 e De Marco venne trucidato da ignoti che affiancarono la sua auto a bordo di uno scooter. Qualche mese prima, a febbraio, erano state uccise la moglie Rosellina e la figlia Barbara. Anche loro, come Edda e Ida, vennero inseguite e freddate a colpi d’arma da fuoco mentre si trovavano in casa, alle otto di sera. Il figlio maschio, Silas, sopravvisse per miracolo nonostante le gravi ferite. Una figlia maggiore non viveva con loro. Gaetano De Marco, afflitto da problemi con l’alcol, dormiva ubriaco in camera da letto e scampò all’attenzione dei killer. Ma non per molto. Anche i De Marco erano una famiglia di cinque persone. Una famiglia modesta che viveva nelle palazzine popolari di contrada Berliguer.
La strage di San Lorenzo del Vallo venne imputata a una rivalsa per vendicare la morte di Domenico Presta, figlio 21enne del boss di Roggiano, allora latitante, Franco Presta. Il ragazzo era stato ucciso un mese prima dal fratello di Gaetano De Marco che aveva un negozio accanto a quello di Domenico Presta. Difficilissimi i rapporti di vicinato, costellati da liti e aggressioni che il negoziante aveve anche denunciato. All’ennesima provocazione, l’uomo aveva imbracciato un’arma e fatto fuoco, poi era andato a costituirsi. A farne le spese saranno il fratello e le sue familiari. Il corpo della ventenne Barbara, che penzola come un cencio dal balcone di casa, nell’estremo tentativo di salvarsi, è un fantasma che ancora aleggia sul nome del paesino. Per questa strage sono stati condannati in secondo grado Domenico Scarola e Salvatore Francesco Scorza, ritenuti amici del giovane Domenico e vicini alla famiglia Presta.
DOMANI RIUNIONE DEL COMITATO DI SICUREZZA Il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica di Cosenza è stato convocato per domattina dal prefetto Gianfranco Tomao per un esame della situazione della sicurezza alla luce del duplice omicidio compiuto stamani a San Lorenzo del Vallo. All'incontro parteciperanno i vertici delle forze dell'ordine e dell'autorità giudiziaria.
PERQUISITA LA CASA DELLA VITTIMA Nei giorni scorsi, investigatori della squadra mobile di Cosenza erano andati a perquisire l'abitazione di Edda Costabile, la donna uccisa stamani insieme alla figlia nel cimitero di San Lorenzo del Vallo. Secondo quanto si è appreso, la perquisizione della polizia potrebbe essere stata fatta nell'ambito delle indagini sul ritrovamento di un arsenale a Rende avvenuto nell'aprile scorso. Era stato il figlio della donna, Francesco Attanasio, ad indirizzare gli agenti verso un box all'interno del quale erano state poi trovate le armi. Il box era in uso a Damiano Garizia che fu ucciso dallo stesso Attanasio in quegli stessi giorni a causa - ha detto Attanasio agli investigatori confessando - di un credito vantato da Garizia e che questi voleva incassare.
Alessia Truzzolillo
                                                                                                                                           redazione@corrierecal.it

mercoledì 26 ottobre 2016

A PROPOSITO DI PLATÍ. A PROPOSITO DI UNA SEPOLTURA IN FORMA PRIVATA. A PROPOSITO DI UN PRETE CHE NON CI STA.


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Reggio Calabria, 21 ottobre 2016
Si chiamava Barbaro Giuseppe, 54 anni. Sarebbe dovuto uscire tra un anno circa. Stava scontando una pena temporanea per un reato ostativo. E’ uscito prima. Senza alcun beneficio, però, perché la sua pena non lo consentiva. E’ uscito da morto! Lo hanno trovato ieri sera in cella ed adesso sarà disposta l’autopsia per accertarne le cause. Come se per acquietare le nostre coscienze macchiate bastasse sapere che sia morto per cause naturali e non piuttosto se fosse stato adeguatamente curato.
Aveva serie patologie.
Più volte mi scriveva e sempre, come quando andavo a trovarlo, mi confessava che aveva paura di non poter vedere i suoi 4 figli, sua moglie, i suoi genitori anziani, i suoi familiari. Lamentava di essere scarsamente seguito. Ho ritrovato, tra le tante, una sua lettera del 5 maggio 2015: tra le tante parole di sofferenza, nel suo italiano claudicante, come la
stampella a cui si appoggiava, così scriveva “…oggi sto male e credo che continuando così da un momento all’altro posso Morire e non accetto questo fatto… qua non funziona proprio niente fanno Morire le persone….”. Purtroppo ha avuto ragione, ma nessuno ci ha creduto. Si è attesa la prova irreversibile.
Diverse volte ho sollecitato le diverse carceri ed il DAP sulla necessità che venisse seguito e curato. Palmi, Melfi, Rossano, Catanzaro ed infine Vibo. Aveva anche subito dei ricoveri temporanei in ospedale, dal carcere stesso. Avevo presentato un’istanza all’inizio della primavera scorsa chiedendo il differimento della pena nella forma della detenzione domiciliare. L’unico strumento possibile per chi sta scontando una pena ostativa. Mi è stato risposto alla fine di luglio 2016 in questi termini “considerato che dalla relazione sanitaria aggiornata al 12.7.2016, inviata dalla Casa Circondariale di Vibo Valentia (le cui conclusioni sono integralmente da condividere, in quanto basate sull’esame di numerose e accurate visite ed esami strumentali, dettagliatamente elencate), risulta che il detenuto, affetto da cardiopatia ischemica cronica, ectasia dell’aorta ascendente, displidemia mista, ipertensione arteriosa, emisindrome somato-sensitiva a sx da pregresso ictus cerebrale, lieve ispessimento delle carotidi bilaterale, ernia inguinale sx e lieve varicocele bilaterale, neoformazione mediastino antero-superiore retrosternale (verosimile timo-lipoma), sindrome ansiosa è in trattamento farmacologico secondo le indicazioni specialistiche, con discreto controllo del quadro clinico generale, per la deambulazione utilizza un bastone canadese ed è autonomo negli spostamenti all’interno della cella e dell’istituto, con la conseguenza che non è in condizioni di salute gravi e tali da essere incompatibili con il regime carcerario, sentito il parere del PG; P.Q.M. Rigetta le istanze”.
Lo avevo visto per l’ultima volta a Vibo, il 6 agosto di quest’anno, durante la visita con Rita Bernardini. Stipato assieme agli altri detenuti, ai passeggi. Non ci è stato consentito, come avviene ovunque, di entrarci ed incontrarli. Solo accalcati dalle sbarre. Come le belve feroci destinate ad aumentare la loro belluinità. Anche lì mi manifestava la sua lamentela ribadendomi che non sarebbe uscito vivo da lì. Così è stato.
Ho saputo che a fine settembre era stato tradotto a Torino per partecipare ad un processo e lì aveva trovato, a suo dire, adeguate cure. Al figlio maggiore, al telefono, comunicava la sua paura per il lungo viaggio da affrontare per tornare in Calabria. Non se la sentiva di affrontarlo. Sapeva che se lo avessero riportato giù avrebbe potuto non sopravvivere. Così è stato. Dopo nemmeno 48 ore dall’arrivo lo hanno trovato stecchito.
Adesso, per lo Stato italiano, sarà un numero da statistiche, alla voce, “morti in carcere”. Per me, era un uomo che avrebbe meritato di andare a casa per essere curato e seguito anche dall’affetto dei suoi cari. Un uomo che ha avuto la sventura di essere nato a Platì, comune della Calabria, in una nazione “serva, di dolore ostello, nave sanza nocchier in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello!”.
Siamo nel Bel Paese, lanciato a folle corse verso il cambiamento, verso un Si’ che intende sburocratizzare la nazione ma che non è in grado di decidere senza alcun dubbio che un uomo debba essere curato a casa piuttosto che aspettarne il decesso in una cella lontano dai suoi affetti.
Sono sicuro che alla VI Marcia del 6 novembre la sua anima, senza stampella, sarà con noi. Con noi che dobbiamo lottare perché l’umanità nelle carceri passa anche attraverso la tutela e la salvaguardia del diritto fondamentale alla salute.

Reggio Calabria, 23 ottobre 2016
A Barbaro Giuseppe sono stati imposti funerali privati per motivi di ordine pubblico. Il parroco di Platì ha fatto ricorso perché l’ordinanza del questore avrebbe imposto il divieto di celebrazione in chiesa….
Orbene, posso comprendere, sforzandomi, che i funerali vengano celebrati in forma privata per ragioni di ordine pubblico (per la commozione che il fatto ha destato in una comunità piccola come Platì), ma che addirittura si debba impedire il funerale in forma privata all’interno della chiesa non riesco a comprenderla… A meno che la Casa di Dio non sia infiltrata dalla ‘ndrangheta… Dallo scioglimento dei comuni a quello delle chiese… evoluzione tutta italica.
Povero Barbaro, non ha potuto curare il suo corpo come riteneva di dover fare, adesso nemmeno la libertà per la cura della sua anima.
Giampaolo Catanzariti per InAspromonte.it
IL RICORSO PRESENTATO AL MINISTERO DELL’INTERNO
DAL PARROCCO DI PLATÍ, PADRE GIUSEPPE SVANERA:
Oggetto: ricorso avverso ad Ordinanza del Questore di Reggio Calabria del 22 ottobre 2016, “Identificazione del luogo dove svolgere i funerali del defunto Barbaro Giuseppe nato a Platì il 30/09/1962 e deceduto presso il carcere di Vibo Valentia in data 20 ottobre 2016”.
Il sottoscritto Svanera Giuseppe […], in qualità di Parroco della Parrocchia Maria SS di Loreto di Platì, in riferimento all’oggetto, presenta ricorso gerarchico avverso all’ordinanza del Questore, […]
Per i seguenti motivi:
  1. L’Ordinanza ha infranto il principio di non ingerenza fra Stato e Chiesa nell’ambito delle rispettive sfere di autonomia, di cui art. 7 della Costituzione e di libertà religiosa anche nel contesto sociale, di cui agli artt. 17 e 19 della Carta costituzionale.
  2. I Giudici, della Quinta Sezione del TAR della Campania con sentenza n. 28168/2010, hanno evidenziato che “le funzioni e cerimonie religiose” possono essere vietate dal Questore per motivi di ordine pubblico, ai sensi dell’art. 26 R.D. n. 773/1931, solo se si tratta di “quelle praticate fuori dei luoghi destinati al culto”, i Giudici vanno oltre, e sottolineando che il Legislatore del TULPS ha ritenuto sufficientemente tutelato l’ordine e la sicurezza pubblica dalla previsione della possibilità per il Questore di vietare il “trasporto funebre in forma solenne” e di stabilire “speciali cautele” riguardanti lo stesso trasporto funebre per le vie cittadine, mentre, al di là di tale potere, lo stesso Legislatore non ha ritenuto che il Questore possa spingersi, adottando ordini e comminando divieti su dove, come e quando celebrare la funzione religiosa in Chiesa; per cui il provvedimento di divieto questorile integra un illegittimo impedimento e limitazione allo svolgimento dell’ordinario rito funebre in forma pubblica previsto dal Rito cattolico, consistente nella celebrazione in Parrocchia, all’interno di un edificio adibito esclusivamente al culto cattolico e sottoposto alla giurisdizione della Santa Sede, di una messa esequiale alla presenza di tutti i parenti e gli amici del defunto e della comunità dei fedeli
Il Ricorrente per i motivi chiede la modifica del provvedimento impugnaTo per la parte “identificazione luogo ove svolgere i funerali” al fine di garantire la libera scelta dei familiari del defunto di poter scegliere il luogo dove svolgere il rito funebre […].
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domenica 23 ottobre 2016

A CORSICO NIENTE SAGRA DELLO STOCCO DI MAMMOLA . TRA GLI ORGANIZZATORI CI SONO ´NDRANGHETISTI.


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Minacce in aula. Parole dal tono mafioso. Dette durante il consiglio comunale. Rivolte a chi chiedeva conto al sindaco del perché la sua amministrazione abbia patrocinato una sagra tra i cui organizzatori compareil genero di un boss della ’ndrangheta. Succede alle porte di Milano, nel Comune di Corsico. La sagra è quella dello stocco di Mammola. Doveva andare in scena oggi e domani. Così non sarà. Lunedì il sindaco, dopo aver appreso dalla stampa del fastidioso cortocircuito, ha deciso di rinviarla a data da destinarsi. Motivo: accertamenti in corso.
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Non proprio la verità, visto che una delibera di giunta già firmata ne dava il via libera. I manifesti della sagra fino a ieri (tre giorni dopo l’uscita della notizia e il rinvio del sindaco) campeggiavano ancora negli uffici dellapolizia locale di Corsico. Sopra, il nome del consorzio calabrese, del sindaco di Corsico Filippo Errante, di suoi due assessori e della persona cui chiedere informazioni, ovvero Vincenzo Musitano marito di Elisabetta Perre, figlia di Giuseppe Perre detto ‘u Maistru, padrino della ’ndrangheta di Platì. A questo va aggiunto che il fratello di Vincenzo, Antonio Musitano ha alle spalle 18 anni di carcere per i suoi legami con la coscaBarbaro-Papalia insediata nei comuni di Corsico e Buccinasco. Oggi la Perre è titolare del negozio Musipane, distributore ufficiale dello stocco di Mammola. Qui al 12 di via Montello fino al 2006 c’era un circolo di caccia e pesca definito dalla Procura l’ufficio della ’ndrangheta nel Nord Italia. Eppure tutto questo è sfuggito al sindaco di centrodestra. Una mancanza, consapevole o meno, di cui giovedì sera è stato chiesto conto in Consiglio comunale con un’interpellanza urgente.Risultati immagini per stocco mammola

A prendere la parola, Maria Ferrucci, ex sindaco della città, da sempre in prima linea contro le mafie. La consigliera inizia il suo intervento in un clima già teso. In aula sono molti i sostenitori della sagra. “Ora – ha detto la Ferrucci – noi ci chiediamo come possa decidere di guidare una città, che risulta penetrata dalla ’ndrangheta, una persona che non fa nemmeno lo sforzo obbligatorio di informarsi. Così si legittimano i boss”. Il passaggio scatena la bagarre e le minacce. Chi è tra il pubblico resta scioccato. È il caso di M.R. che spiega: “Due persone adulte stavano dietro di me, e rivolte alla Ferrucci hanno detto: quella va bruciata con la benzina”. E ancora: “Un’altra persona faceva il segno del tagliare la gola”. Gli amici dei boss in aula si sono portati anche la claque costituita da un gruppo di minorenni.


Risultati immagini per stocco mammolaAl termine la Ferrucci non ha mancato di notare come il sindaco Errante abbia bocciato la richiesta di creare una commissione antimafia, proponendo un tavolo di lavoro che “non si è mai visto”. Netta la risposta di Errante: “Prendere le distanze dalle mafie è un dovere. Sono una persona perbene”
Dalla festa delle ‘ndrine alle minacce in aula. L’escalation è evidente, anche se le forze dell’ordine tengono basso l’allarme. Questo il ragionamento: si è trattato solo di una classica bagarre da consiglio comunale. Nulla di più, dunque? Non la pensa così la senatrice Pd Lucrezia Ricchiuti e membro della Commissione parlamentare antimafia: “A questo punto è necessario che la Direzione distrettuale antimafia di Milano apra un’inchiesta. Dopo l’incidente della sagra, attribuibile a una colpevole mancanza del sindaco, ora le parole volate in aula impongono che la magistratura milanese intervenga”. L’eventualità, fino a ieri sera, non si è verificata. Nessun fascicolo aperto. Nei prossimi giorni, però, al quarto piano della Procura qualcosa arriverà visto che ieri Maria Ferrucci assieme ad altri consiglieri di minoranza, dopo un incontro urgente con il prefetto Alessandro Marangoni, ha annunciato il deposito di un corposo esposto indirizzato anche alla dottoressa Ilda Boccassini per raccontare “il clima d’intimidazione che si vive in questi luoghi”.
Davide Milosa per Il Fatto Quotidiano.it

venerdì 21 ottobre 2016

" GLI EMIGRATI DI UNA VOLTA. GRAZIE A LORO OGGI ABBIAMO UNA VITA MIGLIORE. NON BISOGNA DIMENTICARLO MAI "



Foto dal blog di Vito Teti

C’erano gli «americani», quelli emigrati negli Stati Uniti e a volte tornati, in paese, e mio nonno materno fu uno di loro. Tra Chicago e altre città fece tanti lavori, ebbe una vita avventurosa, fece una certa fortuna e torno in paese dove acquistò poderi, costrui delle case, mise a nuovo la cantina della Caria, dove io appresi da bambino tutti i giochi e le parole del mondo.
C’erano i «canadesi» e mio padre fu uno di loro. Partì nel 1951 e rientro nel 1958. Lo vidi allora la prima volta e intanto avevo declinato parole come attesa, lontananza, paese di Toronto, nostalgia, speranza.
C’erano i «germanesi» e in questa foto (postata da mio cognato Vito Antonio Malfarà che ringrazio) ci sono il nonno, il padre, altri parenti di mia moglie. Di questa emigrazione e di quella in altri paesi europei e del Nord Italia sappiamo meno delle altre (anche se esistono scrittori e studiosi che se ne sono occupati).
Da mio suocero ho ascoltato di traversate a piedi e clandestine, pericolose, delle Alpi, di vita agra e aspra nelle baracche, di fatica estenuante per ricostruire la Germania, ma anche di nuove possibilità che offriva quell’emigrazione. Molti sono tornati, altri sono rimasti ed io mi trovo a guardare le case vuote dei tanti che sono partiti per poco tempo e non sono mai più tornati.
Dobbiamo ad «americani», «canadesi», «argentini», «brasiliani», «venezualani», «australiani», «germanesi», «svizzeri», «francesi», «belgi», «torinesi», «milanesi» l’arrivo nei più isolati paesi del boom economico, delle cioccolate, delle sigarette, delle automobili, dei frigoriferi, del benessere, di una nuova identità. Dobbiamo a loro (e prima ancora alle nostre donne emigrate in Egitto per la costruzione del Canale di Suez: una storia rimossa e dimenticata di donne) se noi, figli di contadini, artigiani, braccianti, abbiamo avuto accesso alla scuola, al sapere, a una vita migliore.
Non dimentico mai questa storia, questa mia storia, che racconto con orgoglio e devozione. Non la dimentico soprattutto oggi che, dopo tante fughe e tanti abbandoni, i paesi sono diventati vuoti – e pensare che la fuga dolorosa e scelta era avvenuta per renderli pieni, vivi, abitabili – e mentre alle porte di chi è rimasto bussano nuove figure di migranti.

Vito Teti


Tutte le Calabrie e i calabresi del mondo / I Germanesi

Foto di emigrati calabresi (del mio paese) a Saarbrücken, Germania (1960) tratta dal profilo Facebook di Vito Antonio Malfarà.

lunedì 17 ottobre 2016

PRESUNTE APPARIZIONI A QUARANTANO DI OPPIDO -.IL MESSAGGIO DEL 13 OTTOBRE AI NUMEROSI FEDELI PRESENTI


Tradizionale appuntamento mensile a Quarantano di Oppido Mamertina dei seguaci di Teresa Scopelliti, la donna che da oltre due anni sostiene di vedere e sentire la Madonna.
Anche il 13 di ottobre una discreta folla si é radunata sulla  spianata del borgo calabrese, davanti ad una piccola statua della Madonna, portata li dopo le prime apparizioni, per recitare il rosario insieme alla signora Scopelliti. E puntuale come ogni mese la veggente si é all´improvviso inginocchiata rivolgendo  il suo sguardo verso il cielo, segno che l´apparizione era cominciata.
Come sempre Teresa Scopelliti ha raccolto,scrivendolo su un quaderno, il messaggio che la Madonna le avrebbe comunicato per poi, subito dopo, condivederlo con i fedeli in attesa.
Mamertinawebtv ha raccolto le immagini e ve le propone.
















sabato 8 ottobre 2016

FIGLIA VATTENE VIA DALLA CALABRIA. IN QUESTA TERRA NON C´É NESSUN FUTURO !

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Stamattina, ore 6,30, binario 1 della stazione centrale di Reggio Calabria. Due padri salutano le proprie figlie. Uno sono io, l'altro è il mio amico Pino. Mia figlia è felice di andare via, sorride, aspetta questo momento da giorni, non c'è traccia di dispiacere nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi chiari che guardano al futuro. E il futuro, lo sappiano io, lei, il mio amico Pino, è lontano da questa Terra avvelenata. Non l'Università. Non come tanti anni fa quando, se si partiva per studiare fuori, lo si faceva sussurrando un arrivederci, contando su un ritorno con una valigia di sapere e di esperienza che ti avrebbero consentito di costruirti un domani migliore, ma qui, dove eri nato e cresciuto. Ora si parte urlando un addio carico di risentimento, sapendo che anche dopo non ci sarà spazio per te in questa terra terremotata dalla natura e dagli uomini. 

In questo periodo ho tre lance piantate nel cervello, per cose diversissime tra loro, ma tra le quali io vedo un filo indissolubile che lega la prima alle altre due. La partenza di mia figlia. Le mie vicissitudini sul posto di lavoro. La scomparsa di Antonio Franco. L'ho detto e ripetuto a mia figlia, soprattutto negli ultimi tempi: scappa da questa Terra ingrata, metti più spazio che puoi tra essa e il posto dove deciderai di costruire la tua vita, dove troverai il modo di mettere a frutto la tua intelligenza, il tuo talento, il tuo animo gentile, il tuo desiderio di bellezza e di civiltà. Tuo padre ci ha provato a cambiarla; a renderla, se non altro, un terreno fertile dove fare crescere erba sana, fiori colorati. Tuo padre ci ha provato, con l'impegno politico, con lo studio, con l'impegno sul lavoro. Ci hanno provato in tanti, come lui, e con molti si sono compiuti tratti di cammino insieme, mano nella mano, con la speranza a rendere il passo spedito anche nelle sabbie mobili. 

Ma li hai visti anche tu i moderni piroscafi per le Americhe lasciare l'ormeggio, carichi di persone stremate che hanno rinunciato, vinte dalla rassegnazione. Il tuo piroscafo non parte da Napoli, non ha come meta le Americhe, non è sovraccarico di gente disperata che ha svuotato le campagne e che al 50 % non arriverà neanche a destinazione, o forse sarà fermata a un passo dal traguardo in una qualsiasi Ellis Island. Il piroscafo tuo e dei ragazzi come te è un treno, o un aereo, o qualsiasi altro mezzo di locomozione per andare lontano. Non c'è sventolio di fazzoletti, ma i sentimenti sono sempre quelli, immutabili al mutare del tempo e delle stagioni: rassegnazione, rinuncia, astio, risentimento. 

Antonio Franco, invece, se n'è andato in un altro modo, doloroso per lui, per i suoi cari, per i tanti che gli volevano bene. E che cosa ha avuto Antonio, da questa Terra maledetta, alla quale chissà quanto tempo ed energie e incazzature ha dedicato? Sì, l'affetto dei suoi concittadini, e poi? Non meritava più di altri, che hanno seminato un piccolo orto e si sono ritrovati con poderi immensi traboccanti di ogni ben di dio? Sì, si era guadagnato ben altro, Antonio. Lo dico io, scevro da condizionamenti di ogni genere, lontano anni luce dalle sue idee. Alla fine, questa Terra irriconoscente l'ha cancellato, e la terra materiale, quella coi lombrichi e gli insetti, se l'è preso per sempre. Di notte, perché i peggiori furti si commettono al buio per non farsi scoprire, per non farsi acchiappare. 

In questa Terra, d'altronde, i soliti noti hanno preso a compiere furti di futuro in pieno giorno, en plein air. E lo fanno convinti di non pagare dazio. Loro scrivono quel poco che sanno, celandosi dietro Titoli, pieni di iniziali maiuscole indici di Potere, vuoti come i loro cuori. E mentre scrivono, le loro parole sciolgono come i ghiacci dell'Antartide competenze, capacità, talenti, anni di studio, che valgono, in questa Terra disperata e disperante, meno di una parolina sussurrata all'orecchio. I furti di futuro senza destrezza, alla fine, si sommano, e come strati di antiche e nuove inciviltà arrivano a coprire tutto, a fare della Malabria, come la definisce lo scrittore nostro concittadino Maurizio Marino, una Carthago deleta sommersa dal sale dell'arroganza e della prevaricazione. Vai, figlia mia, e non tornare più; andate, ragazzi, e non tornate più. Anche i migranti sbarcano solo per passarci sopra e scappare via, da questa Terra del nulla.

fonte:Nino Mallamaci per zoomsud.it

venerdì 7 ottobre 2016

A PROPOSITO DI NICOTERA : C´É MAFIA E MAFIA ( ED ELICOTTERO ED ELICOTTERO)

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foto:repubblica.it

Nei giorni scorsi, c’è stato in Calabria un fatto di cronaca e costume allo stesso tempo che ha fatto rizzare i capelli a chi abbia un po’ di memoria storica in terra di Siena (ben pochi, peraltro).  Rinfreschiamo un pochino la memoria ai lettori, dunque, e buona lettura!

MAFIA IN CALABRIA, A BUONCONVENTO INVECE?
Una coppia di sposini come tanti – beh, forse non proprio: di famiglia pare in odore di ‘ndrangheta – , volendo celebrare un matrimonio all’insegna della sobrietà francescana(sic), hanno visto bene di farsi calare dall’alto – per la precisione, da un elicottero! – il giorno delle loro nozze. E chi se ne frega, dirà qualcuno!
Giusto, giustissimo: se non fosse per il fatto che qualcosa di simile – e senza neanche bisogno di matrimonio ad hoc – accadeva, non molto tempo or sono, e per più di una volta, in quel di Buonconvento. Eh sì, perché nel ridente borgo della Val d’Arbia quando arrivava il Borgogni Lorenzo di Finmeccanica, sapete come arrivava? Arrivava – scendendo giù dal cielo – proprio in elicottero, e trovava, giù a terra, i nove decimi del paese ad omaggiarlo, con scappellamenti vari e lunghe file di buonconventini a fare la fila per salire loro stessi.
Ora, ciò che è accaduto a Nicotera, vicino a Vibo Valenzia,  ha creato allarme e sdegno: è una manifestazione di forza, di potenza e di prepotenza della ‘ndrangheta locale (cosca dei Mancuso, in particolare: e non è il caso di fare battute scontate e fuori luogo, lo diciamo subito a chiare lettere, in riferimento a chi è facile immaginare); si è mobilitata perfino la Commissione parlamentare antimafia, dopo che il fattaccio è stato ripreso e mostrato a tutti: l’allarme e lo sdegno sono unanimi, per l’appunto.
Anche se la questione elicottero è solo la ciliegina sopra una torta già ben preparata, si parla di un nuovo scioglimento del Comune calabrese per infiltrazioni mafiose (non sarebbe la prima volta, e neanche la seconda, a dirla tutta).
Evidentemente in zona Terre di Siena c’è un doppiopesismo, che in questi anni abbiamo sempre cercato di evidenziare: perché ai tempi in cui Lorenzo Borgogni faceva il bello ed il brutto tempo in Val d’Arbia (portando in loco Massimo D’Alema, fra gli altri), nessuno – a parte quache cane sciolto, come lo scrivente ed il maestro Adriano Fontani – muoveva obiezioni…andava tutto bene, anzi benissimo.
La moglie del numero due di Finmeccanica, maestra, ha scudato qualche milioncino di euro? Risparmi onestissimi, ci mancherebbe. La figlia del Borgogni Assessore in Comune? Meritatissimo posto, ed indipendente dai meriti del padre, si capisce.Oggi speriamo che le cose siano cambiate: ce lo auguriamo.
Ci sono elicotteri ed elicotteri, comunque, in terra di Italia…

fonte:l´eretico di siena

sabato 1 ottobre 2016

PER GLI OMICIDI DI OPPIDO DEL 2012 TUTTI ASSOLTI PER NON AVER COMMESSO IL FATTO


foto di Mirko De Maio


REGGIO CALABRIA Rimane senza colpevoli la primavera di sangue di Oppido Mamertina, il piccolo centro della piana di Gioia Tauro teatro di cinque omicidi fra il maggio e il marzo del 2012. La Corte d'Assise di Palmi ha assolto dall'accusa di omicidio Giuseppe Ferraro, Rocco Mazzagatti, Pasquale Rustico, Domenico Scarfone e Simone Pepe, tutti accusati a vario titolo di aver ucciso Francesco Raccosta, Carmine Putrino, Vincenzo Ferraro e Vincenzo Raccosta. Per tutti loro, il pm Giulia Pantano aveva chiesto la pena dell'ergastolo, ma la Corte non ha ritenuto sufficientemente fondata l'accusa. Per questo motivo, esce assolto da ogni accusa Giuseppe Ferraro, difeso dall'avvocato Siclari, mentre tutti gli altri incassano condanne solo per gli altri reati loro contestati.
CONDANNE E ASSOLUZIONI È di 20 anni di carcere la condanna inflitta a Rocco Mazzagatti, difeso dagli avvocati Stajano e Infantino, mentre è di 16 quella decisa per Domenico Polimeni, assistito dai legali Stajano e Freno. Quindici anni rimedia il giovanissimo Simone Pepe, assistito dagli avvocati D'Ascola e D'Acuto, mentre è di 13 anni e 4 mesi la pena decisa per Pasquale Rustico, assistito dagli avvocati Giunta e Veneto. Infine, i giudici hanno stabilito una pena di 10 anni di reclusione per Leone Rustico, assistito dai legali Veneto e Pignataro e Domenico Scarfone, difeso dagli avvocati D'Ascola e D'Acunto. La Corte d'Assise ha invece assolto da tutte le accuse Valerio Pepe, Silvana Atteni e Rocco Ruffa.
L'INCHIESTA È questa la decisione che chiude il primo grado del procedimento Erinni, scaturita dall'omonima indagine partita per stringere il cerchio attorno ai latitanti dei clan della zona, riuscita però a fare luce sulle dinamiche criminali di Oppido, stretta fra le rivalità mai sopite fra i clan Mazzagatti-Polimeni-Bonarrigo e Ferraro-Raccosta. 'Ndrine sospese fra un passato di ferocia tribale e un futuro dominato dalla spregiudicatezza imprenditoriale. Dalle carte dell'inchiesta, i clan appaiono infatti in grado di investire e puntare sul mattone lontano dalla Calabria, approfittando del sistema delle aste giudiziarie per appropriarsi di immobili, attività commerciali e imprese, ma anche di sparare e uccidere per gestire i rapporti criminali sul territorio, viziati da rivalità e conflitti mai sopiti.
L'OMICIDIO BONARRIGO Contrasti che tracimano in una nuova stagione di sangue fra marzo e maggio del 2012. Cinque mesi durante i quali cadono, uno dopo l'altro, Domenico Bonarrigo, freddato il 3 marzo, Vincenzo Ferraro, ucciso il 13 marzo, Francesco Raccosta e il cognato Carmine Putrino, scomparsi il 13 marzo ed eliminati nel pomeriggio dello stesso giorno, e Vincenzo Raccosta, ammazzato il 10 maggio. Per gli inquirenti – si legge nell'ordinanza – «non si trattava però di una vera e propria faida, ma di una fibrillazione registrata all'interno della locale di Oppido Mamertina da parte di una cosca, quella Ferraro-Raccosta, immediatamente sopita da parte del gruppo 'ndranghetista egemone, quello facente capo ai Mazzagatti, intenzionato a non abdicare il proprio maggiore potere mafioso conquistato negli anni della guerra».
MATRIMONIO PACIFICATORE Una fibrillazione che rompe quei tre anni di pace che lo storico matrimonio fra i rampolli dei due clan, Francesco Raccosta e Giuseppina Mazzagatti, aveva inaugurato. Il tentativo di espansione criminale dei Ferraro-Raccosta, firmato con continui furti, danneggiamenti ed estorsioni, innesca la reazione di Domenico Bonarrigo, detto "Mimmazzo", elemento di spicco del clan avversario, che avrebbe per questo pagato con la vita. Una vendetta che gli inquirenti hanno tentato di ricostruire soprattutto ascoltando le lunghe e compromettenti chiacchierate di Simone Pepe, giovanissimo figliastro di "Mimmazzo". Ascoltandolo, inquirenti e investigatori non hanno avuto difficoltà a ricollegarlo a diversi delitti, inclusa la scomparsa di Francesco Raccosta e del cognato Carmine Putrino, secondo le ipotesi degli inquirenti, percossi violentemente quindi dati in pasto ai maiali. Allo stesso modo, grazie alle chiacchierate di Simone Pepe, la Dda era certa di aver individuato in Giuseppe Ferraro, Rocco Mazzagatti, Pasquale Rustico, Domenico Scarfone. Ma la Corte, al termine di un dibattimento lungo, complesso e combattuto, non è stata dello stesso avviso.
Alessia Candito per il corrieredellacalabria.it