
Si chiamava Maria Rita. Ma per tutti quanti era e sarà la figlia del boss. La nipote del pentito. La cugina di qualcun altro. Senza identità, quella che ha recuperato, ma non del tutto, sui giornali, che oggi la piangono. Le avrebbero reso però la vita difficile, un giorno, quando quella vita avrebbe preso forma e quel cognome sarebbe venuto su come un rifiuto gettato in mare e mal ancorato. Lo Giudice.
A Reggio a pronunciarlo ad alta voce ci si gira a guardarsi le spalle e sperare che nessuno abbia sentito. Lei, 25 anni, bellissima e fresca di laurea, forse, così dicono, se lo sentiva addosso lo sguardo di tutti, perché si chiamava così. E forse, dicono ancora, si è buttata per questo dal quinto piano del palazzo dove abitava. Ha aperto la finestra, alle 6.50 e ha guardato in faccia il vuoto per dimenticare i pregiudizi.
I primi accertamenti dei carabinieri hanno fatto circolare un’ipotesi inquietante: Maria Rita si sarebbe suicidata perché non sopportava il peso di quel cognome, che a Reggio Calabria significa fuoco e sangue. Quel nome che porta suo zio Nino, alias “il nano”, il pentito più controverso della storia. Come Giovanni, suo padre, considerato un elemento di spicco della cosca. In Procura ci sono ora i verbali del fidanzato, dei parenti e degli amici della giovane. Che raccontano il suo peso e si chiedono se tutto dipenda da quello. La madre, invece, non ci sta: forse me l’hanno drogata, dice. Così il funerale, per ora, non si farà. Si aspetteranno altri esami, per una verità che forse va cercata in più posti.
La vita, da queste parti, troppo spesso è così. Fatta di gente che compila etichette e le spara addosso agli altri. Salvo, poi, cancellare bene le impronte digitali per lavarsi via ogni responsabilità quando le cose si mettono male. Perché per tutti Maria Rita portava e doveva portare il suo cognome come una lettera scarlatta. Anche oggi che sui giornali che l’avrebbero divorata viva la piangono, anche oggi non ha nome: «la figlia del boss». Come se Maria Rita, laureata in economia a pieni voti, fosse solo questo. Come se fosse colpa sua se qualcuno ha utilizzato i suoi stessi geni per cose che non condivideva.
Non era colpa sua ma qualcuno, sicuramente, prima o poi gliene avrebbe fatto una colpa. Al primo posto di lavoro conquistato con la propria laurea, se per caso fosse stata "consulente di" o "vicina a". O qualunque altra cosa. Le avrebbero dato della mafiosa perché il sangue è una sorta di veleno che non ti lascia scampo. Perché certe cose non le scegli e sei quel che sono i tuoi genitori.
E nel dirlo, i detentori della verità e della moralità si sarebbero sentiti difensori di principi che invece avrebbero infangato. A partire dalla Costituzione, che tanto sbandierano quando si tratta degli altri. Maria Rita si chiamava Lo Giudice, ma magari di battesimi e circoli formati non ne sapeva nulla. Ma non era di certo libera di urlarlo ad alta voce, perché gli altri quella libertà non gliela volevano concedere. Gli stessi che oggi, da altari costruiti con legno marcio, la piangono "perché fa notizia". Così come quelli che, pronti a sputare sentenze, piangono quando il loro nome finisce nel tritacarne.
"Le parole uccidono", scoprono oggi, quando sono loro a pistole scariche di vocali e consonanti. Pronti a usare il fuoco solo quando consuma le vite degli altri. Chissà se lo scriveranno anche sulla sua lapide chi era il vero padrone del suo cognome, per farla riconoscere a chi non riesce ancora a vederci una ragazza di 25 anni. Che è volata via, sul pregiudizio degli altri.
per zoomsud.it Simona Musco
A completamento della notizia vi proponiamo una dichiarazione del procuratore della repubblica di Reggio Federico Cafiero de Raho( T.P.)
"Maria Rita Lo Giudice si è tolta la vita e questo deve toccare la coscienza di tutti. Se c'è una ragazza che si è fatta strada nella vita scolastica per la propria onestà, ha conseguito una laurea che è strumento per sottrarsi alla famiglia di 'ndrangheta di cui fa parte e non siamo capaci di integrarla, abbiamo perso tutti quanti".
Brillante studentessa di Economia, dopo la laurea conseguita a pieni voti nell’ottobre scorso, la ragazza aveva deciso di proseguire il proprio percorso universitario a Reggio Calabria, e circa un mese fa con docenti e colleghi di facoltà era partita per Francoforte e a Bruxelles, per un viaggio di istruzione alla sede della Banca Centrale e agli uffici della Commissione Europea. Un viaggio immortalato in decine di scatti, pubblicati su facebook dalla ragazza, evidentemente fiera di un percorso che la stava portando lontano da Reggio Calabria, dove il suo cognome è sempre stato sinonimo di ‘ndrangheta. Figlia di Giovanni, da tempo in carcere, nipote del boss, adesso pentito Nino “Il Nano”, e della mente imprenditoriale del clan, Luciano, la ragazza - secondo alcune indiscrezioni – sentiva il peso del cognome che portava addosso e l’ostracismo sociale che a Reggio Calabria ne deriva (corrierecalabria.it).
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