lunedì 30 gennaio 2017

E´ MORTO IN CANADA " ROCCO DEL SUD " IL CANTANTE DI GIOIOSA VOCE DEGLI EMIGRATI DEL NORD AMERICA





Rocco del Sud, voce degli emigranti italiani nel mondo, ci ha lasciati. Se ne è andato con la Calabria nel cuore. Rocco Severino si è spento a 80 anni in Canada, lontano dalla sua amata Gioiosa Jonica.
“Il suo grande Cuore Calabrese - scrive Vinz Derosa, che è stata la persona più vicina a lui negli ultimi tempi - non ha resistito. Ci lascia il suo sorriso e le sue belle canzoni che in giro per il mondo e soprattutto qui a Toronto, hanno fatto battere forte i cuori di tanta gente”.
Legatissimo alla terra natia, è stato costretto ad emigrare quasi 50 anni fa, diventando uno dei più noti interpreti dei canti dell’emigrazione in Nord America.
Ha venduto oltre un milione di copie nel 1975 con la canzone “Lascio la mamma mia”. E questo anche grazie a Johnny Lombardi e a Chin Radio che avevano apprezzato e valorizzato il cantante gioiosano partito dal profondo Sud con una valigia piena di sogni.
Rocco è rimasto un eterno sognatore.
Eterno ragazzino. Piccolo di statura. Sul palcoscenico giganteggiava: voce, gestualità, originalità dell’abbigliamento, spassosissime battute.
Simpaticissimo. Coinvolgente. Trasmetteva ottimismo. Voce dei sentimenti. Toccava il cuore. Con la semplicità, l’ingenuità, l’orgoglio di un calabrese con “la testa dura e un cuore tenerissimo”. Le sue canzoni, le sue appassionate interpretazioni, hanno riscaldato i cuori dei nostri emigranti per oltre sessanta anni.
Il popolo di Facebook ha reso omaggio a “Rocco del Sud” con centinaia di messaggi. Da un capo all’altro del mondo. Vasta popolarità, conquistata con tanti sacrifici. Era amato. Ha saputo farsi voler bene, perché era un uomo buono.
L’amicizia per lui era una cosa sacra. E sapeva mantenerla. Siamo cresciuti assieme, nello stesso rione di Gioiosa Jonica. Lui un po’ più grande di me.
Entrambi abbiamo dovuto lasciare il nostro bel paese. Lui per inseguire il sogno di sfondare nel mondo della canzone. Io per continuare l’attività giornalistica, prima in Piemonte e poi in Abruzzo, dove sono stato Capo Redattore della Rai.
Ogni volta che ci rivedevamo a Gioiosa, era una festa. Una grande festa tra grandi amici.
La notizia della sua morte mi ha addolorato molto. Su Facebook ho ricordato l’amico della bella gioventù gioiosana riproponendo alcune sue interpretazioni e pubblicando alcune foto significative del suo lungo viaggio nel mondo della canzone popolare.
È stato uno dei precursori ed uno dei più convinti sostenitori della necessità di mantenere vivi i canti della tradizione nella loro originaria genuinità. Gli inizi a Gioiosa Jonica sul finire degli Anni Cinquanta: sul palcoscenico del Supercimema in occasione della trasmissione radiofonica della Rai “La Palma d’Argento”; l’applaudita esibizione durante il primo Festival Internazionale del Folk di Gioiosa Jonica nel 1969 , quindi il successo nei concerti oltre Oceano.
Alla Calabria, alla sua, alla nostra Gioiosa era molto affezionato. La distanza ed il tempo non hanno condizionato il senso dell’appartenenza. Un amore vero. Sincero. Come solo le persone umili sanno fare: semplicemente , con la voce del cuore.
Ciao caro amico Rocco,continua a cantare lassù l’amore per le radici, per la cara terra nostra!

domenica 22 gennaio 2017

DOBBIAMO DIFENDERCI DAL TERREMOTO - IL PROGETTO DI RENZO PIANO

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Dobbiamo difenderci dal terremoto: ecco il mio progetto generazionale. C’è un intruso da allontanare una volta per tutte, una parola insidiosa che ricompare ogni volta che in Italia si verifica un terremoto. Parlo del fantasma sempre evocato della fatalità. Di fatale c’è solo che i terremoti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Purtroppo. La terra trema. E la natura non è né buona né cattiva. È semplicemente, e brutalmente, indifferente alle nostre sofferenze. Non se ne cura. Ma noi abbiamo una grande forza, una forza che la stessa natura ci ha dato in dono: l’intelligenza.
Parlare di fatalità è fare un torto all’intelletto umano. La storia insegna: ci siamo sempre difesi, con porti, dighe, argini, case e con la medicina. Tocca a noi, al senso di responsabilità, investire la giusta energia nella messa in sicurezza delle nostre case. Che poi siamo noi stessi, perché se cerchi l’uomo trovi sempre una casa. La casa è il luogo della fiducia, il rifugio dalle paure e dalle insicurezze. Molto di più che un semplice riparo dal freddo e dalla pioggia.
Non possiamo più allargare le braccia invocando l’ineluttabilità del destino. Questo comportamento è un insulto alla natura stessa: quella dell’uomo. Che, per l’appunto, è homo sapiens.
Come disse Sandro Pertini, dopo il terremoto in Irpinia: il miglior modo di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi. Aveva ragione, quindi difendiamoci. Non possiamo tollerare che crollino interi paesi e centinaia di persone restino sepolte sotto le macerie. Il terremoto è un mostro, ma possediamo le tecniche e le conoscenze per proteggerci. Deve entrare in modo permanente nelle nostre coscienze ancora prima che nelle leggi, parlo del dovere di rendere antisismici gli edifici in cui viviamo, così come è obbligatorio per un’automobile avere i freni che funzionano. Nessuno si metterebbe in viaggio con una macchina che non frena, invece tantissime famiglie vivono incoscientemente in zone sismiche (lungo tutta la dorsale degli Appennini, la spina dorsale dell’Italia da Nord a Sud) in case insicure. C’è qualcosa che non torna.
Cosa fare? Rendiamo sicuro un patrimonio insicuro che sono le nostre case. Non mi riferisco alla ricostruzione di Amatrice e di Accumuli che si farà e va fatta presto. Credo si debba guardare lontano. Penso a un progetto di lungo respiro, a un piano generazionale che duri cinquant’anni. Bisogna intervenire con sgravi e incentivi nei passaggi generazionali, quando passa in eredità la casa dei nonni e la nuova generazione è più interessata a ristrutturarla. E in quel momento bisogna pensare alla sicurezza dell’edificio.
Per far partire questo grande cantiere si comincia applicando la scienza della diagnosi, che è precisa, oggettiva, per l’appunto scientifica. Come un bravo medico fa la diagnosi prima di prescrivere una cura o consigliare un’operazione, la diagnosi consente anche nelle case d’intervenire solo dove è necessario. Più la diagnosi è puntuale e meno l’intervento è invasivo e costoso, oggi abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Ci sono apparecchiature sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che produciamo in Italia, e d’altronde esportiamo negli altri continenti.
Non siamo un Paese del terzo mondo, anche se spesso facciamo di tutto per sembrarlo. Con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche. Ci vuole un cambiamento culturale che abbandoni l’oscurantismo dell’opinione, del “secondo me si fa così”, per abbracciare il mondo contemporaneo. Con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come un corpo vivente.
L’arte del conoscere e del sapere consente la massima efficacia senza accanirsi sugli abitanti, senza doverli allontanare durante il cantiere. Non si deve sradicare la gente da dove ha vissuto, è un atto crudele. C’è un legame indissolubile tra le pietre e le persone che le abitano. La casa è una protezione fisica e mentale, è il luogo del silenzio, tutti, proprio tutti, passiamo la vita a tornare a casa.
Per questo parlo di cantieri leggeri che permettano i lavori senza dover mandare via le famiglie. Certo i tempi del cantiere leggero sono più lunghi, questa è un’operazione sottile che implica pazienza, determinazione e continuità.
Non solo la popolazione deve restare negli edifici ma bisogna farla partecipare attivamente alle operazioni. Penso alla figura dell’architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati e a rischio di crollo in caso di sisma. Essere architetto condotto insegna una cosa importantissima: l’arte di ascoltare e di trovare la soluzione. Per questo occorrono diagnostica e microchirugia e non la ruspa o il piccone. L’idea è quello di ricucire senza demolire, la leggerezza come dimensione tecnica e nel contempo umana.
Trent’anni fa a Otranto con Gianfranco Dioguardi abbiamo già lavorato a qualcosa di molto simile: il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall’Unesco per rammendare il centro storico. Oggi la tecnica permette diagnosi molto più precise, ma la filosofia resta sempre la stessa: la casa è dove si trova il cuore, scriveva già duemila anni fa Plinio il Vecchio.
Dovete credermi. Quello che voglio fare per rendere più sicure le case degli italiani non è teoria, mi hanno nominato senatore a vita perché sono un architetto, un costruttore di città. Sono pratico. Con il mio gruppo di lavoro al Senato, G124 che già si occupa delle periferie, proponiamo di fare dieci prototipi che coprano tutte le tipologie costruttive, vecchie e recenti, dieci abitazioni che abbiano la funzione di modello per i futuri interventi. Case in pietra, in laterizio e in calcestruzzo, costruite prima o dopo la guerra. Si può fare, credetemi, e bisogna farlo.
Il nostro è un Paese bellissimo ma fragile. La nostra bellezza è un valore profondo al quale troppi di noi si sono assuefatti e non la colgono più. In Italia la bellezza è così straordinariamente diffusa che è diventata assuefazione, la gente la vive con distrazione, senza accorgersene.
Ma il mondo ci guarda come eredi scriteriati e ha ragione perché la fenomenale bellezza dell’Italia storica non appartiene solo a noi, è un patrimonio dell’umanità. Siamo eredi indegni perché non lo proteggiamo a dovere. Serve una svolta culturale, abbiamo il dovere di rendere meno fragile la bellezza dell’Italia ingentilita e antropizzata dai nostri antenati. Un bene comune la cui responsabilità è collettiva.
Renzo Piano per www.ilsole24ore.com

martedì 17 gennaio 2017

LE IMMAGINI DELLE NUVOLE NEL CIELO FANNO DA SFONDO ALLA PRESUNTA APPARIZIONE DELLA MADONNA A TERESA SCOPELLITI- QUARANTANO DI OPPIDO 13 GENNAIO 2017

Nonostante il freddo intenso,  un centinaio di persone si sono dati appuntamento a Quarantano di Oppido Mamertina, dove ogni 13 del mese la veggenteTeresa Scopelliti riporta ai presenti i messaggi che la Vergine Maria le darebbe apparendole in visione.
E´ dal mese di agosto 2014 che le presunte apparizioni si susseguono con cadenza mensile e nonostante i moniti della Chiesa e del Papa a non immaginare la Madonna come una postina che lascia messaggi a chiunque ( il richiamo  é soprattutto per Medjugorie), sono in molti a seguire Teresa Scopelliti ed affidarsi alle sue preghiere. In questo appuntamento del 13 gennaio non sono mancati i fenomeni legati alle immagini che le nuvole disegnano nel cielo.

venerdì 13 gennaio 2017

QUANDO I NOSTRI PAESI ERANO PULITI E NON C´ERA SPAZZATURA PER STRADA. VI RACCONTO GLI SPAZZINI DI UNA VOLTA



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Per parecchi anni, gennaio è stato un mese felice. Il compleanno di mia nonna Ciccia e quello di Mario, il campionato di calcio che riprendeva dopo la pausa natalizia, la speranza della neve e la sensazione di trovarmi seduto sullo slittino al cancelletto di partenza, pronto a lanciarmi velocemente verso l’estate laggiù in fondo. Oggi è un po’ diverso. Gennaio è il mese delle assenze: di nonna, la mattina dell’esame di storia moderna; di zio Ntoni, fratellastro di mia mamma, la notte in cui la morte entrò proprio dentro la nostra casa per svegliare tutti e addormentarne uno. Diciotto anni fa.
Ntoni “u spazzinu” aveva rischiato di morire appena nato, come sua mamma a pochi mesi dal parto. Tragedie familiari frequenti negli anni Trenta e anche in seguito, con la sala parto “allestita” dentro le abitazioni che impegnava tutte le donne della rruga: chi riscaldava l’acqua, chi porgeva tovaglie e ferri del mestiere alla mammina, chi preparava il pranzo per gli altri componenti della famiglia, chi si limitava a pregare perché tutto andasse per il meglio. Le preghiere servivano, eccome.
Ntoni la superò, anche se qualche traccia di quella battaglia gli rimase incisa tra le pieghe del cervello per tutta la vita. Riuscì però ad ottenere un posto da spazzino comunale, quando ancora il politically correct non aveva introdotto la figura dell’operatore ecologico e quando il netturbino proveniva esclusivamente dai ceti più poveri della società. Grazie al lavoro, soggetti a rischio di emarginazione riuscivano a ritagliarsi un ruolo e a svolgere una funzione nella comunità, contribuendo così al perseguimento del bene comune. Che in questo caso consisteva nel mantenimento della pulizia delle strade e delle piazze del paese.
Una cantilena di nomi forse meno prestigiosa di quella “Zoff-Gentile-Cabrini” vittoriosa a Spagna ’82, ma impressa nella mente dei bambini di allora: l’autista Peppino “llipari”, Saro “mbisca”, Vincenzo “u merru”, Ciccio Lombardo, Gianni Pitasi, Mico “u bandista”, Ciccio “cciamparancella”, Vincenzo “u bagasciu”, Ciccio “gaddina”. Quest’ultimo anche vandijaturi, in possesso di una voce squillante che dagli incroci delle strade raggiungeva i cortili e le case per annunciare il bando, generalmente la chiusura dell’acqua nel periodo estivo: «jettu u bandu… ca e cincu i stasira… chiudinu l’acqua!». Infine mio zio Ntoni, appena un ciuffetto di capelli sopra il centro della fronte, nascosto dal cappello blu come la sua divisa da spazzino comunale. Un uomo forte e senza misura, la cui figura spesso s’intravedeva appena, coperta dalla carriola caricata all’inverosimile di cartoni, che spingeva nelle salite del paese cercando di tenere il castello in equilibrio.
È innegabile che il servizio porta-a-porta degli anni Ottanta fosse efficientissimo, le strade del paese spazzate tutti i giorni senza l’ausilio di mezzi meccanici, la via occupata dalle bancarelle del mercato pulita ogni domenica in tempi record. Ci pensavano loro, con le ramazze di brojera che spesso ho visto preparare per zio Ntoni da mio nonno, la faccia caliata dal sole anche in vecchiaia, come se gli anni di duro lavoro da carbonaro o nei cantieri gli avessero per sempre marchiato la pelle. Il sangiovanni con il parroco del paese don Antonio Messina, suo padrino di cresima, comportava inoltre a Ntoni alcuni impegni extra: lavori nella casa del sacerdote, ma anche la raccolta della legna e dei rami per il “luminario” che il 6 settembre – allora come oggi – veniva acceso in onore della Protettrice.
Una vita di fatica analoga a quella di molti altri lavoratori anonimi: gente umile, dignitosa, esemplare nella propria semplicità.


Domenico Forgione per InAspromonte.it

giovedì 5 gennaio 2017

STAVOLTA NON É UNA BUFALA : IL NEW YORK TIMES INDICA LA CALABRIA COME UNA DELLE METE TURISTICHE PER IL 2017

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Qualche settimana fa sulle pagine facebook di migliaia di italiani, venne fuori la notizia che una famigerata agenzia americana aveva incoronato la Calabria come la regione piú bella del mondo. In molti ci sono cascati e anche alcuni colleghi  di testate regionali hanno abboccato all´amo confezionando servizi adatti ad esaltare la notizia. Naturalmente trattavasi di bufala costruita ad arte per illuminare il piú possibile il sito galeotto che l´aveva ideata . E´ bastato,infatti, avere qualche amico in giro per l´Italia per scoprire che la stessa agenzia aveva assegnato lo stesso titolo anche a Puglia,  Sicilia,  Lombardia e a tutte le altre regioni dell´amato stivale .
Quella di oggi,invece, é una notizia vera. Il New York Times, uno dei piú prestigiosi quotidiani del mondo, ha infatti indicato la Calabria, anzi il sud della Calabria, come una delle 52 mete da non perdere per il 2017. Ed é stata scelta non per il mare, la montagna o i suoi paesi, ma bensi per le sue eccellenze culinarie.
Puo´ sembrare strano per una regione che non ha, a differenza della gran parte del resto d´Italia un suo piatto tipico che la faccia riconoscere a occhi chiusi ( penso ai tortellini o alle lasagne, ai pizzoccheri e ai risotti, alla casseula o al baccalá piuttosto che al grana o al parmigiano), ma cosí é ( se vi pare)...
E allora, aspettando orde fameliche di turisti provenienti da tutto il mondo, proviamo ad immaginare che cosa potremmo far degustare ai futuri ospiti seduti alla nostra tavola. Avendo poca immaginazione mi sono fatto aiutare dall´amico Turi Violi che qualche anno fa ha composto in versi
spettacolari questo decalogo della cucina calabrese( é lunga,ma vi consiglio di leggerla fino alla fine perché troverete di sicuro il vostro piatto preferito.Provo anche una traduzione sommaria per i non calabresi). E buon appetito...

U DIABETICU                                                                          IL DIABETICO
U diabeticu, se voli m’u capisci,                                  Il diabetico se vuole capire
nd’hav’e mangiar’u campa e no’ u mori:                     deve mangiare per campare e non morire
no’ tanta carni ma tantu e tantu pisci                            non tanta carne ma tanto pesce
e tuttu chiju chi nci vol’u cori.                                      e tutto ció che gli chiede il cuore.
Perciò nommu si rincrisci,                                            Quindi per non annoiarsi
se nd’havi e fari dieta personali,                                   se deve fare una dieta personale
ma nd’havi di sicuru mu ‘bidisci                                  deve seguirla e basta
e nommu faci comu li nimali                                        e non fare come gli animali
chi manginu chiju chi nci capita                                   che mangiano ció che capita
ca nd’hannu sul’u jinchinu la panza,                            perché devono riempirsi la pancia
senza gustu s’è salat’o nsìpita                                       non importa se dolce o salato
basta pemmu nc’esti la bondanza.                                basta che sia abbondante.
U diabeticu, ntantu, è di palatu                                     Il diabetico intanto é di palato
e disija chiji cosi sapuriti,                                             ama le cose saporite
comu di ccicculata nu gelatu                                        come il gelato al cioccolato
e durci cu belli frutti ngileppati.                                   e i dolci con la gelatina.
Ntantu, comu faci amaru iju                                         Intanto povero lui
ca no’ poti mangiari comu voli,                                   non puo´mangiare come vorrebbe
e nd’havi nott’e jornu lu disiju                                     e desidera notte e giorno
u mangia sulu chiju chi no’ coli.                                  il cibo che puo´fargli male.
E faci sempri sonni di mangiati                                   E sogna grandi abbuffate
e di mbivuti a cannarozzu chinu:                                 e bevute a piú non posso:
puru timpànu fattu cu patati                                         pure lo sformato di patate
e nnegatu cu cannatazz’i vinu.                                     annegato con brocche di vino.
Si mangiarissi certu nu crapettu                                   Mangerebbe certo un capretto
ndo furnu bellu cott’e rusulatu                                     cotto e rosolato al forno
e poi carni salata nd’o cugnettu                                   e poi carne salata
cu pani friscu ampena sfurnatu…                                con pane fresco appena sfornato.
E cutuletti frijuti d’a matina,                                       Cotolette fritte in mattinata
se piacinu friddi e quindi rivenuti;                              e mangiate fredde e rinvenute
e pruppetti armenu na trentina                                     polpette almeno trenta
cu’ pip’acìtu belli ccumpagnati…                               accompagnate da peperoncino acido.
E pumadora e pipalori bruscenti                                 Pomodori e peperoncini piccanti
chi fannu pemmu rest’a vucc’aperta;                          tali da restare a bocca aperta;
carni rrustuta chi faci fumenti                                     carne arrostita ancora fumante
e supprizzati fatt’a ffett’a ffetta…                               e soppressate a fette.
U diabeticu disidira ogni cosa:                                    Il diabetico desidera tutto
d’i caramelli e atri liccardì;                                         caramelle e altre prelibatezze
a fami nci pigghja senza posa                                     perché ha sempre fame
e pemm’a carma faci cosi:                                          e per calmarla fa in questo modo:
pensa ca si mangia nu piattuni                                    pensa di mangiare un grande piatto
chinu di maccarruni cu’ rragù                                     pieno di maccheroni col ragú,
fattu di crapa e no’ di muntuni,                                   fatto di capra e non di montone
e tantu artu chi pô fari cucù…                                     talmente pieno da poter fare cucú...
E cannelloni quantu na buccetta                                 Cannelloni grossi come una bottiglia
e past’o furnu ch’i cannarozzeja                                 e pasta al forno con i maccheroncini
fatta cu’ ova gugghjuti e cu’ ricotta…                        piena di uova sode e ricotta....
e cu salami e cu na provuleja…                                  e ancora salame e provola....
E forzi puru vermicej’a carbunara                              E forse anche vermicelli alla carbonara
fatti c’u buccularu i porcu niru,                                  fatti con la pancetta di maiale nero
cu ova frischi portati a panara                                     con uova fresche a ceste
cu na grattata i pecurinu e pipi niru…                         una grattata di pecorino e pepe nero...
Si mmagina ca mangia viscotteju                                Immagina di mangiare pane biscottato
mmogghjatu c’u pumadaru stricatu,                           condito con pomodoro
cu tantu ogghju chi faci canaleju                                e tanto olio da farlo scolare
d’u guvitu ca esti assai mbonatu;                                dal gomito per quanto é inzuppato;
e frittuli e ova fritti e ricottuni                                    cotenna di maiale uova fritte e ricotta
e lardu e satizzi e capicoju                                          lardo,salsicce e capocollo
e nduja bella fatt’a gruppuni                                       nduja bella a nodi
e casu friscu bellu moju-moju…                                e formaggio fresco molle molle...
Poi, stoccu rrustutu ch’i pumadoreja                          poi stoccafisso arrosto e pomodorini
i chiji chi si zzippinu a fannacca,                               di quelli che si raccolgono a collana
salati e cunduti a funtaneja                                         salati e molto conditi
mbiscati a pipalori bruscia-vucca:                              insieme a peperoncini brucia-bocca:
e stoccu cu’ patati e pumadora                                   e stocafisso con patate e pomodori
fatt’a gghjotta cu’ chjappara e livi                              alla ghiotta con olive e capperi
cu’ jà mmenzu na par’e pipalora                                con in mezzo due peperoncini
chi pari ca ti dinnu:”Ora mbivi!”                                che sembrano dire: " Ora bevi "!
E ancora baccalà nfarinatu                                          E ancora baccalá infarinato
e frittu comu si facìa na vota                                       e fritto come veniva fatto un tempo
chi poi nda padeja venia conzatu                                aggiustato poi nella padella
e tutti quanti mangiavanu a rrota.                               dove tutti mangiavano intorno.
Ndo sonnu no’ mancanu frittati                                  Nel sogno non mancano le frittate
cu patati o cucuzzi o cu ricotta                                    con patate,zucchine e ricotta
e pe’ cuntornu pipi frijuti                                            e per contorno peperoncini fritti
e minestra gugghjuta, bella cotta                                verdura bollita, bella cotta
e ffuccati tanti grocculeja                                            e broccoli soffritti
amari e duci fatti virdi-virdi                                        amari, dolci e non molto cotti
chi jinchinu china na padeja                                        tanti da riempire una padella
cu nu sapuri chi quasi no’ ricordi                                con quel sapore che ormai non ricordi piú
e ancora na renga pezzijata                                         e ancora una sarda salata
nda nu piattu conzata a morzareja                               messa in un piatto a pezzetti
e poi mu veni bella ‘mbivarata                                    e poi innaffiata
di ogghju frittu c’a solita padeja,                                 con olio fritto della stessa padella,
poi nu bellu rotu i parmigiana                                     poi una bella parmigiana
cotta giusta e i supa mbrustuluta                                 cotta a puntino e bruciacchiata in cima
fatta cu ffettazz’i melangiana                                      fatta con grosse fette di malanzana
fritta precisa dopu mmazzarata.                                   fritta subito dopo che ha perso il liquido.
E nommu mancanu i micciuji                                      E che non manchino i ciccioli
chi tanti, sfurtunati, no’ ssaggiaru                               che tanti sfortunati non hanno mangiato mai
mangiati, se su’ caddi, chi curuji                                 mangiati,se sono caldi, con le corone di pane
e mbivendu daveru paru-paru.                                     e bevendo a piú non posso.
Oppuru, sempri pe’ cuntornu,                                     Oppure,sempre per contorno,
vajaneji fatti a stufateju,                                               taccole bollite
ccumpagnati cu’ patat’o furnu                                     accompagnate da patate al forno
serbuti nda nu bellu cuccumeju.                                  servite in un bel tegame.
Poi, na cosa chi chjù no’ si trova:                               Poi una cosa che non si trova piú:
picciunej’i palumba belli chini                                   un piccioncino di colomba
cu casu e mujica mpastati cu ova                             ripieno di formaggio e mollica impastata con uova
e fichitu e cori tagghjati fini-fini.                               fegato e cuore tagliuzzati a pezzettini.
Oppuru na cosa daveru prelibata:                              Oppure una cosa veramente prelibata:
stigghjoli d’i gudeja d’u crapettu                               intestini di capretto
suffritti nd’a tighella c’a corata                                  soffritti in pentola con la coratella
pemmu ti poi mbiviri nu goccettu.                             giusto per poter bere un goccio.
Certu non poti mancari a pitta chjusa                         certo non puó mancare la pizza coperta
jincuta cu scalora e liva i giarra,                                riempita con scalora e olive in salamoia,
licia salata e pumadora comu si usa,                          acciughe salate e pomodoro
ma senza agghju e nuju pemmu parra.                       ma senza aglio e che nessuno fiati.
Nommu manchinu melangiani chini                         Non possono mancare le melanzane ripiene
o pitteji’i hjuri fritti a puntinu                                    le frittelle di fiore fritte come si deve
chi ti fannu nda panza pemmu mini                          che ti fanno rumure in pancia
e nnaffiati cu biccherazz’i vinu.                                e innaffiati da un gran bicchiere di vino.
Nsumma, nu sbenturatu sdijunutu,                           Insomma, un povero disgraziato che ha fame
poti pensari sulu pranzi fini,                                     puó pensare solo a pranzi fini
però quandu a tavula è sedutu                                  peró quando é seduto a tavola
senza m’i sona guarda i piattini.                              guarda i patti senza suonarli.
E pensa brascioluni belli randi                                 E pensa a grandi braciole
di carni rrotulata e rrustuti                                       di carne arrotolata e arrostita
chi t’i mangi pemmu ti difendi                                che mangi per difenderti
e pemmu dici ca su’ sapuriti.                                   e per dire che sono saporiti.
Non è ca mi sperdia a struncatura                           Non ho dimenticato la struncatura
jà pasta nira fatta sul’jina,                                       quella pasta fatta coi resti di varie farine
chi, puru cotta, resta sempri dura                            che rimane dura anche se é cotta
e cu’ licia e mujica è cosa fina.                               e che una delizia condirla con acciuga e mollica.
E a licioccula bella mmullicata,                              E i bianchetti inzuppati di mollica
cu casu pecurinu e atri conzèri,                              con pecorino e altri sapori
nd’o rotu artu di luminiu mpurnata                        infornati nell´alluminio
e serbi mu ti cacci li penseri,                                 e che serve a scacciare i pensieri
chi ti veninu a fini d’a mangiata                           che ti vengono alla fine della mangiata
pecchì i nacatuli assai sapuriti                               perché le nacatole saporite
si serbinu a fini pastu, nd’a sirata,                         si servono in serata, a fine pasto,
ampena prima pemmu vi ndi jiti…                       poco prima di andare via...
E na ppena i pignolata, chi diciti,                          E di un po´di pignolata che ne dite,
vi pari giustu pemm’a rifiutati?                            vi sembra giusto rifiutarla?
No’ nsiamài, pemmu v’a perditi                          Non sia mai detto di non mangiarla
a nsemi a grappa e atri misturati.                         insiema alla grappa ed ad altri liquori.                 
Poi, ficasicchi fatti a cruci                                    Poi fichi secchi a croce
jincuti cu nuci e cu’ cannella                                ripieni di noce e cannella
e mpurnati a focu lentu e duci,                             infornati a fuoco lento e dolce
di sicuru, su’ na cosa bella.                                  sicuramente una bella cosa.
‘Nsumma u diabeticu, l’amaru,                            Insomma il diabetico, poveraccio,
campa di fami e mori di speranza                        vive di fame e muore di speranza
pechhì lu mangiari u paga caru                            perché il cibo lo paga caro
e lu penzeru junta nda la panza.                           e il pensiero va sempre nella pancia.
(Chi non si jinchi mai, o chi sbentura!)              ( Che non si riempie mai, che sventura!)
Turi Violi 2013                                                     Trad.Appr. di Tonino Polistena