martedì 6 settembre 2016

STORIE CALABRESI DI UN TEMPO CHE FU : QUANDO PRIMA DI SPOSARSI SI FACEVANO LE SERENATE -




foto Morizzi Oppido


Come sono lontani i tempi in cui le ragazze in età da marito potevano uscire di casa solo nei giorni di festa per andare a messa e solo se accompagnate dai genitori o da qualche parente stretto! Il computer con le sue mail, facebook con le sue chat e i messaggi privati e i telefonini per parlare a viva voce o comunicare tramite messaggini sms appartenevano ancora ad una generazione futura, ma lontana nel tempo e nell’immaginazione.
Per parlare via cavo, quando ancora il telefono era una mezzo di comunicazione per pochi eletti, bisognava fare ore d’attesa al posto telefonico pubblico, che doveva richiedere la linea al centralino, che dopo qualche ora la restituiva con la voce della persona chiamata. Non parliamo, poi, delle telefonate intercontinentali, quasi impossibili visti i costi stratosferici. Per vedere la donna amata, magari al balcone o in terrazza che stendeva i panni al sole, bisognava passeggiare ore intere sotto la sua abitazione. Rimanevano solo le chiese e il camposanto, luoghi di culto dove tutti potevano accedere, ma senza cacciàri mali nominàti (diffondere notizie per infangare l’onorabilità della ragazza), complice la solita mbasciatùra(ambasciatrice), che organizzava gli incontri per permettere a due innamorati di scambiarsi qualche breve effusione amorosa.

L’amore, dunque, poteva essere fatto di sguardi, se la ragazza aveva il permesso di frequentare le funzioni liturgiche, o di lunghe e interminabili lettere, che raccontavano lo strazio di un amore che si consumava tra languidi sospiri e attese spasmodiche. Ma se i due innamorati erano divorati dal fuoco ardente dell’amore, in tal caso, avrebbero potuto spegnere solo col matrimonio o con la classica fujitìna (scappatella) la loro incontrollabile voglia di anticipare i tempi…
foto Morizzi Oppido
Serenate
A questo tipo di comunicazione si aggiungeva, però, quello più chiaro e suggestivo delle serenate, che i giovani andavano a cantare sotto il balcone della donna amata, di notte, quando tutti dormivano, e soltanto lei non riusciva a prendere sonno.
Vinni mi cantu ccà nta chisti strati
di nott’e notti, si mi canusciti;
port’e finestri chi siti sbarrati,
mi salutati a cu’ d’inta teniti
Con versi popolari come questi, il fidanzato ribadiva alla sua bella l’amore per lei. E l’innamorato che parte da lontano, riesce a superare tutte le difficoltà del viaggio, ben intuendo la gioia che l’aspetta all’arrivo, dove canta così:
Aju partutu di tantu luntanu
e vinni apposta pemmu ndi vidimu,
e li puntuna mi parènu chjanu,
l’arburi riganegli’ e petrusinu.
E ora c’arrivai nta chistu chjanu,
mi sembra ca lu fici lu caminu;
affaccia bella e porgimi la manu,
ccavanti mi fa mali lu surinu

foto Morizzi Oppido
Ma l’amore per la donna amata, spesso, dava sfogo a componimenti davvero originali e di rara bellezza poetica, che solo il cuore del popolo, semplice e contadino, poteva comporre:
Ndaju ‘nu cori quantu a ‘na nuciglia,
vaju cercandu ‘na figghjola bella,
e non mi mporta s’esti picciriglia,
ca mi la crisciu cu viscottineglia,
e quand’è randi mi curcu cu d’iglia,
facimu ‘u jocu di la palumbeglia
Ma destinataria delle serenate non era solo colei che infiammava il cuore dell’innamorato. Di riflesso, qualche volta, la serenata era indirizzata anche alla madre di lei, che non voleva che la figlia si fidanzasse. Al suo cuore, il futuro genero bussava così:
O mamma mamma quantu sirinati
cu ‘na figghjola bella chi ndaviti;
vogghju mi sacciu si la maritati
oppuru si nta casa v’‘a teniti
foto Morizzi Oppido

Succedeva anche che destinatario della serenata, qualche volta, fosse anche il padre, che si opponeva alla realizzazione di un sogno d’amore, gettando nella più cupa disperazione l’uomo che imprecava anche contro la sfortuna:
Occhj nigregli non vi lamentati
ca non è curpa mia, vu’ lu sapiti;
curpa la me’ furtun’ e vostru patri,
non vonnu ca di mia patruna siti
Le serenate non raccontavano solo storie d’amore, ma anche di sdegno e di disperazione per un amore non corrisposto:
Sdegnu chi mi sdegnast’ ‘u cori tantu,
non pozzu mi ti vij’ e mi ti sentu;
quandu viju lu diavulu no schjantu,
ma quandu viju a ttia
schjantu e spaventu
E l’innamorato, che per lei era anche finito in carcere, canta con parole di odio il suo amore finito:
Fu’ carciaratu a li carciari toi
e non venisti mu mi vidi mai.
Tu mi mandasti lu cafè d’aloi
e pe d’amuri toi mi lu pigghjai.
Mò va’ dicendu ca mortu mi voi,
ma pe’ dispettu toi non moru mai.
Ma mori prima tu e la genti toi,
mu si distruggi ssa rrazza chi ndai
Ma quando lo sdegno era alimentato da un odio molto profondo, l’innamorato non aveva peli sulla lingua nel dichiarare alla sua ex-amata/odiata tutto il suo disprezzo:
O facci di ‘na brutta carcarazza,
tu porti migli diavuli pa trizza;
va’ a trovari ccocchjunu mi t’ammazza
c’a mmia mi resta tanta cuntentizza

foto Morizzi Oppido
Le canzoni di sdegno, che erano l’altra faccia dell’amore, hanno da sempre arricchito le pagine della letteratura popolare, quasi sempre orale, facendosi portavoce di un risentimento che sconfinava spesso nella vendetta verbale dell’innamorato, il quale ironizzava sull’onorabilità dell’amata, che lascia il suo innamorato e cede alle promesse di altri spasimanti:
Campana chi si’ fatta di mitagliu
e ‘ncùdini chi batti ogni martegliu,
gaglina cavarcata d’ogni gagliu
e ficu pizzicatu d’ogni arcegliu
Succedeva, qualche volta, che l’innamorato fosse minacciato di morte, nel caso in cui non si fosse allontanato da quella ragazza o avesse continuato a fare di lei l’oggetto delle sue serenate notturne:
E nta sta ruga m’annu minazzatu
ca si passu di ccà je’ campu pocu.
Je’ passu e spassu com’a ‘nu dannatu
pacchì la vita mia la penzu pocu.
Ogniu spicuni ndavi ‘n’omu armatu,
ogni finestra ‘na bampa di focu
Ma anche contro i vicini di casa, che avevano la brutta abitudine di criticare due giovani che parlano senza essere ufficialmente fidanzati, si possono scagliare gli strali del risentimento dell’innamorato:
E nta sta ruga nc’è ‘nu malu diri
ca jeu mancu cu ttia pozzu parlari;
subitamenti si mentunu a diri:
«Chiglia è la nnamurata di lu tali.
Focu mi cadi di li ciaramidi
e pammi bruscia cu’ ndi parla mali»
Una volta si diceva che, senza le malelingue, anche i preti si sarebbero potuti sposare, per cui, nei nostri paesi, ogni storia d’amore è sempre stata oggetto delle più disparate dicerie, col rischio – spesso frequente per la ragazza – di non sposarsi più o di essere bollata come donna poco seria.
foto Morizzi Oppido

fonte:Franco Blefari InAspromonte.it

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