mercoledì 21 settembre 2016

13 SETTEMBRE TANTI FEDELI A QUARANTANO PER ASCOLTARE IL MESSAGGIO DELLA MADONNA A TERESA SCOPELLITI





Da 23 mesi Teresa Scopelliti raccoglie i fedeli nella frazione Quarantano. Afferma di vedere la Madonna e di ricevere il tredici di ogni mese un suo messaggio. Anche questa volta numerose persone si sono raccolte in preghiera davanti alla statua della Madonna. Tanti i fedeli provenienti da tutta la Calabria che hanno raccontato esperienze legate a presunte guarigioni.

lunedì 19 settembre 2016

PANZA CHINA FA CANTARI, NO CAMMISEJA NOVA


http://www.ilcamminodellamusica.it/public/Maiale%201.JPG


Dal Blog Hagia Agathe´ di Bruno Demasi, due perle di saggezza di due amici. Ciccio Epifanio e Nino Greco ci raccontano in poesia e prosa due episodi di " panza "  legati al cibo. Una visita dal macellaio ed una mangiata tra amici che nel loro epilogo nascondono, ma non troppo,  la schiettezza senza peli sulla lingua  del calabrese offeso e la filosofia  di chi si aggrappa alla morte come liberazione dai piaceri della vita( tp).


  I GRANELLI ( di Francesco Epifanio) 


  Ogni jornu senza fretta
   Mastru Cicciu Tracandali
A’ fermata d’a piazzetta
Aspettava lu postali.

Mastru d’ascia di scandagghju
cu ja panza di rovaci
s’avviava a lu travagghju
o’ paisi ‘i Castejaci.

Na matina comu tanti
chi ‘a currera no’ venia
s’addunau ca jà davanti
era aperta ‘a gucceria.

E ngriandu l’occhju moru
nda vineja jà di latu
s’accorgiu di nu gran toru
a’ na vuccula ligatu.

Era Venniri e Violi
macellaru di jenia
nuja zingara nci voli
mu ndovina chi facia.

Ca ju toru paria fattu
mu finisci ndà gravigghja
o a rragù nda lu piattu
foragabbu e maravigghja.

Mastru Cicciu dittu e fattu
cu premura e dicisioni
ndò macellu quattu quattu
trasi lestu e dici: Ntoni,

Fummu sempi amici belli
e ti cercu ‘a curtisia
nzemi o’ ficatu i granelli
pe’ stasira jeu volia.

Assentisci lu cucceri
e rispundi: Vai sicuru
ca lu ficatu e i conzeri
ti li dassu certu puru.

Se lejiti sti cartelli
Stati attenti cu la prosa
ca si dici li granelli
pe no’ ddiri n’atra cosa.

Ddunca’ i curza chija sira
quandu Cicciu si cogghjiu
comu quandu u ventu spira
nda la gucceria trasiu.

Si fermau davanti o nzaru
ca p’a fuja no capia
e nci dissi o’ macellaru
se nc’iassau la mercanzia.

Lu gucceri rispundiu
Scapocchjandu li papelli
ca lu ficatu u vindiu
ma su pronti li granelli.

Mastru Cicciu, omu di spiritu
cu na vuci di leuni
nci gridau: A CCU NC’IASTI U FICATU
 DANCI PURU LI CUGGHJUNI.
 
 
 
 
 
 
 U VINU BONU…FINU A FEZZA ( di Nino Greco)

- Non jettai nenti ! - disse Melo u gucceri, a Vestianu, mostrando ciò che era divenuto il maiale di settantotto chili macellato il giorno prima; sfoggiava vanto per aver fatto un lavoro impeccabile, tantoché aveva lavorato ogni centimetro di carne senza jettare nulla. Poi lo aveva stipato in diverse limbe, tutto pronto per la consegna.
In una c’erano ricchji, pedi e mussa, in un’altra le costate; i gambuni aveva li aveva acciati e riempito le budella per satizzi. Il lardo, che sarebbe servito per cuocere le frittole senza acqua, in un’altra insieme alla pancetta; e quest’ultima sarebbe stata la botta scura: grigliata sulla brace ardente, avrebbe saziato gli ultimi brami di fame, ma a vesperi come facevano ogni anno.
Vestiano aprì il cofano della Fiat 1100 famigliare, mise tutto dentro e si avviò verso la foresta.
Quel giorno di Dicembre, con il Natale già archiviato, doveva essere vissuto come quello degli anni precedenti con l’impegno di banchettare con le carni di un maiale oltre i settanta chili e stillare fino all’ultima goccia due damigiane da venticinque litri di vino novello. Loro non si perdevano di animo, la squadra aveva molato gli incisivi, come se durante quelle feste non avessero mai assaggiato nulla di mangiabile.
Erano di buona forchetta tutti e dodici: Vestianu, Micheli, Mastro Peppe, Mastro Turi, Totò, Ciccio, Nicola, ancora l’atru Ciccio, il Professori Turi, Pascali, Ninu e Saveri.
Non tremavano davanti a oneri così grevi, loro avevano solo bisogno di tempo: tempo e vinazza, dicevano per far intendere che a tavola bisogna tenere il passo giusto, accompagnati da buona vinaccia.
Era la stessa banda che una sera, in un ristorante di Gioia, dopo aver fatto fuori tutte le scorte di pesce, chiesero al cuoco di radunare tutte le lische, avanzi di pesce poco prima consumato, e confezionare un sughetto per una ulteriore spaghettata.
Mah..! Che dire?
“Fiere” da tavola, loro non mangiavano: trangugiavano. Sapevano tutti i trucchi culinari per cucinare cerbeje, ma si esaltavano quando si davano per cottimo un maiale di settanta chili e i cinquanta litri di vino da consumare da mattina a sera, in un solo giorno.
Il luogo accordava, casa colonica di Vestianu con annesso focolare nelle ribbe di Boscaino, il freddo di stagione e le mmurfurate o magari la pioggia avrebbero dato il senso giusto dell’intimo e del riposo obbligato, per non aver nemmeno lo scrupolo di aver saltato un giorno di lavoro; non che se facessero a fronte di impegni simili.
Vestiano, da padrone di casa, fu promentino, si portò avanti, e con la perizia che non gli mancava dentro la colonica preparò il focolare col fuoco che già andava e un tripode con caddara in rame sopra, per le frittole sotto la pinnata, al riparo dalla pioggia.
Due fuochi, tanta carne, tante mani esperte per mandibole addestrate.
Giunsero tutti in ordine sparso, scaricarono le vettovaglie, il vino, un sacco di pane da Rragna e armarono il campo.
Era un combinato di competenze, sapevano a memoria procedure e tempi di cottura, tutto doveva essere in sincrono; già alle dieci di mattina i fumi delle costateje arrostiste riempiva le narici.
Rrusti e mangia, mangia e rrusti la giornata si avviò col suono delle spisie del focolare e col profumo e il fumo di ciò che arrostiva: costateji e satizzi. Si aprirono i canali delle damigiane, i primi litri andarono via per le cannate d’assaggio.
Prima di mezzogiorno le costateje erano finite, le salcicce scemavano lisce e il vino innaffiava abbondante. Il pranzo fu solenne e i brindisi fioccarono ad ogni alzata di gomito:
- A rrobba bona finu a pezza…u vinu bonu finu a fezza!.
Chi mai avrebbe potuto dissuadere, da quel proposito, quell’accolita d’inappetenti?
Intento impegnativo, ed era il modo per dire che l’obiettivo sarebbe stato arrivare al fondo della botte, cioè bere tutto e sfiorare il fondo dove era depositata la fezza, in quel caso le damigiane.
Sapevano cosa dicevano e lo facevano convinti, al fondo bisognava arrivare.
Battagliarono, il pomeriggio fu tosto, le frittole cotte al punto giusto non sdingarono il palato dei nostri, loro volevano solo tempo e a dire il vero se l’erano preso.
Nelle prime ore del pomeriggio, in alternanza con mussa e pedi, qualcuno accordò la chitarra e Mastro Peppe cominciò il suo repertorio:
..O bella sigaretta così bianca,
che vai consumandoti al calore,
io che ti reggo con la mano stanca
so quanto è falso il tuo candore.
Sei bianca fuori
 ma il tuo corpo è pieno 
di biondo sottilissimo veleno…
“ Come una sigaretta” era il suo cavallo di battaglia e non appena i fumi di Bacco superavano i livelli, lui, Mastro Peppe iniziava così, era il segnale che lo show aveva inizio.
Ciccio si accodò con la fisarmonica e da quelle corde vocali ingrassate dal lardo delle frittole vennero fuori improbabili stornelli e acuti da far scappare anche i ranunchi di quelle ribbe.
Il manto del vespero, di quel giorno d’inverno, colse i nostri sazi, carichi e con gli occhi piccoli; non fecero in tempo a ultimare la mangiata: il dolce era rimasto fuori e dimenticato.
Ormai avevano rotto le fila e si muovevano spinti più dal vino senza seguire logiche, qualcuno urlo tra le ombre dell’aranceto:
- Il dolce lo mangiamo in piazza, a Oppido !
- Sì ! - risposero i più
- Si va a Oppido per il dolce e poi si continua con le serenate !
In quattro e quattrotto radunarono le cose necessarie, si misero in macchina e si avviarono per Oppido.
La piazza grande assolata e fredda li accolse, scesero e si radunarono per tagliare i panettoni e aprire spumanti; qualcuno chiamò: -
- Peppe ! Dai la chitarra !
Peppe non rispose, ntassarono tutti. Si guardarono intorno e Mastro Peppe non c’era. I loro sguardi cangiarono, l’allegrezza di qualche minuto prima aveva ceduto al posto alla preoccupazione. Dove era andato a finire Mastro Peppe?
- Michele ! non era con te in macchina ? chiese Vestiano.
- Sì, stamattina era con me, ma pensavo che adesso fosse venuto con te..
La preoccupazione si impadronì dei loro pensieri e dei loro volti. Cos’era capitato a Mastro Peppe? Se l’erano dimenticato oppure qualche malore l’aveva colto nei meandri ormai bui dell’aranceto?
Michele e altri due si misero in macchina alla volta di Boscaino, percorsero quei quattro chilometri in silenzio, il pensiero che fosse capitato qualcosa affannava i loro cuori.
Giunsero davanti alla casa colonica, alzarono i fari: nulla.
Mastro Peppe non c’era, scesero e a distanza udirono una voce che cercava di intonare:
.. buonanno a chi è felice nella vita
buonanno alla spigliata gioventù..!
Grazie a Dio, pensarono, Mastro Peppe era lì, nell’aranceto che si accompagnava con la chitarra a cui erano rimaste solo due corde, la passione con cui intonava la canzone era la solita, come se uno stuolo di spettatori fosse davanti a lui.
- Mastro Peppe ! pe’ la miseria ‘ndi pigghiammu ‘nu spaghettu !- urlò Michele.
Lui si girò e icrociò il suo sguardo, smise di cantare e lo riguardò. Era palese il suo serio stato di ubriachezza, ma ciò non impressionò nessuno.
Lo guardò ancora senza scomporsi e disse:
- Michele, menu mali ca’ morimu, sennò sta vita cu a faciva !
 Si alzò con l’aiuto degli amici e si avviò con loro
 
 

giovedì 15 settembre 2016

SU MELITO ABBIAMO TUTTI TORTO di PAOLO POLLICHIENI

http://www.reggiocalabriaweb.it/img/blog/20160910085355_5019.png
fiaccolata a Melito



Detto con brutale franchezza, ancorché con estrema mitezza, imparino i nostri concittadini di Melito Porto Salvo che mai come in circostanze come quella che oggi vivono, gli assenti hanno sempre torto.
E assenti eravamo un po' tutti solo che adesso qualcuno vorrebbe continuare nella sua assenza e provare a giustificarla pure.
Ironicamente Paolo Sorrentino, che non è solo un regista da premio oscar ma anche un sensibile e raffinato scrittore, intitola il suo miglior volume «Hanno tutti ragione». Qui oggi è l'esatto contrario, abbiamo tutti torto. Iniziamo da noi stessi: dov'ero io – che per giunta faccio il direttore nel maggior quotidiano on-line di questa regione – mentre un'intera comunità pur dotata di scuole e istituzioni, persino chiese, pur capace di consumi sofisticati e pienamente collocata in quell'Occidente immaginario che gli agitatori dello scontro di civiltà ci dicono davvero diverso dai mondi cupi dei veli, dei burkini, della misoginia di Stato e di Chiesa, regrediva o forse nemmeno si evolveva – solo ingannevolmente rivestita di modernità – restando posata sul bordo di quel medioevo perenne, invincibile, di cui ha dato prova? Perché non ho capito? Quanto buio infiltra questi nostri paesini pacifici, queste contrade laboriose, questi pii circondari?
Dove eravamo tutti noi che pensiamo di assolvere al nostro dovere civico limitandoci a cliccare un "mi piace" sugli eroismi degli altri?
Dove era, e dove è, il sindacato, la politica, l'informazione, la scuola, la chiesa quando le nostre contrade vengono deturpate dalla 'ndrangheta? Altro mostro medievale che si nasconde in piena luce, negata da tutti, taciuta da tutti, intenta a farsi i fatti suoi in mezzo a tutti.
Alla fiaccolata si va. Gli assenti hanno torto. Inutile prendersela con i cronisti. Mai come in quelle circostanze sono gli assenti ad avere torto.
Il Pd e la giunta regionale scendono in campo a Melito. Fanno bene, a patto che non finisca come un'altra Platì. Maria Elena Boschi viene a Reggio Calabria per partecipare al Comitato per l'ordine e la sicurezza convocato dal Prefetto. Fa bene. Lancia un messaggio preciso, perché lei è anche ministro delle Pari opportunità ed è bene che si sappia che la sicurezza si costruisce anche attorno alla parità tra cittadini. Sorgerà a Melito un centro per il contrasto della violenza alle donne, anche questo è un segnale da accogliere con trasversale adesione. A patto che tutto abbia poi un seguito e un radicamento nel territorio. A condizione che larga parte della comunità di Melito non sia soggetto passivo di queste attenzioni mediatiche e istituzionali ma ne diventi protagonista. Ecco perché altre assenze non potranno essere perdonate. Il che non assolve lo Stato dalla sua colpa più grave: il genocidio bianco che sradica dalla Calabria le sue forze migliori e isola quelle sane che vi rimangono.
Negli ultimi dieci anni trecentomila ragazzi e ragazze calabresi hanno fatto la valigia, davvero non potevano impegnare qui le loro intelligenze e la loro caparbietà? I mafiosi sono gli unici a restare saldamente attaccati al territorio. Vuol dire che chi è rimasto a Melito o altrove è mafioso? Assolutamente no, ma altrettanto certamente le difese immunitarie di un corpo sociale piagato, deturpato, stuprato da decenni di giogo mafioso si sono allentate. E chi resta si divide. C'è chi si illude di poter convivere con il "convitato di pietra" seduto a fianco e chi reagisce ma non trova la dovuta solidarietà. Così il cronista che chiama mafiosi i mafiosi deve andar via, quello che definisce "presunto boss" un ergastolano alla quarta condanna definitiva, può restare a casa sua e dire che il problema è il cranio del "brigante" Villella rimasto in mano ai "piemontesi". Ma di quale dei due generi di cronista hanno veramente bisogno Melito e la Calabria?
C'è il medico che cura i latitanti invocando Ippocrate, ma apprezzando anche il voto di scambio, e quello che rifiuta il certificato "amicale". Il primo resta e fa eleggere i rampolli, l'altro emigra... e fa carriera. È cosi dentro ogni categoria: preti e vescovi, magistrati e ingegneri, imprenditori e commercianti. E' così per i nostri ragazzi: c'è la figlia del boss Aquino che va a dare esami su appuntamento, consegna il libretto prende il massimo e non apre bocca. C'è lo sgobbone che studia di giorno e lavora di notte e nessuno lo prende a bordo. La prima male che vada entrerà alla Regione o in qualche ufficio tecnico comunale. Il secondo partirà ancor prima di laurearsi. C'è il primario che elargisce voti e mazzette e c'è la ricercatrice che cura il parkinson, scopre la Nicastrina ed a stento riesce ad avere un laboratorio negli scantinati.
In mezzo un esercito di ignavi che si indignano solo quando la loro ignavia finisce sui giornali e nelle televisioni nazionali.
Lì smettono di essere assenti e diventano protagonisti, invocando visibilità e rispetto.

fonte:Paolo Pollichieni direttore CorrieredellaCalabria.it

MA COSA ABBIAMO COMBINATO A MELITO PORTO SALVO.....?

 
 Processione a Melito


È successo già questa estate per l’inquinamento del mare, quando da più parti si gridò al sabotaggio della stagione turistica sulle coste e i mari calabresi per colpa dei giornali nazionali. Benaltrismo, diciamo, come se poi la monnezza non ci fosse tutto l’anno con delle responsabilità precise, da denunciare semmai per tempo. Prendersela con gli “allarmismi” invece che con gli “armanti” è un modo, magari ingenuo, per non prendere mai di petto un problema.
Adesso ci risiamo con il brutto fattaccio di Melito dove, ricordiamo, una ragazzina di 14 anni è stata stuprata per due anni (e quindi da quando ne aveva appena 12) da un gruppo di balordi qualificati del paese. E anche in ciò si ricomincia a disquisire, e ci tocca ancora sentire la solita solfa della “persecuzione” sul buon nome dei calabresi. “Un fatto di ‘ndrangheta? E quando mai: sono cose che succedono ovunque e si strumentalizza solo per dare addosso a noi!”; invece che prendere le distanze dagli autori come altra cosa rispetto ai normali cittadini. Insomma, il solito vittimismo sterile a cui, almeno io, non mi assocerò.
Ma poi perché questa levata di scudi e coda di paglia? Le responsabilità sono personali (e della cosca di appartenenza, in questo caso) e non certo di tutti i calabresi. Sbaglia, o è un tantino in malafede, anche chi va ad incolpare l’intera ‘ndrangheta su misfatti che non gli appartengono come organizzazione.
Naturalmente ognuno può dire e ribadire le sue ragioni: incolpando questo o quell’altro di corresponsabilità però si defocalizza il punto della questione confondendo – invece di schiarirle – le idee della gente; e quando addirittura si salta a piè pari l’oggetto principale (che nel caso è la violenza alla ragazzina) si fa un gran favore ai mafiosi.
Certo, dire le cose come stanno, nominando persone ritenute pericolose, comporta il prendersi le proprie responsabilità; ma se vogliamo essere onesti con noi stessi dobbiamo farlo. Per il mio modo di vedere, i porci di Melito (di questo si tratta) debbono vergognarsi di camminare per strada quando ritorneranno con quella faccia al loro paese.
Senza girarci intorno, è innegabile come il fatto in questione presenti connotati differenti rispetto ad altri fatti consimili che avvengono fuori della Calabria. Qui non c’è una aggressione, per quanto brutale violenta, estemporanea di chi strappa e fugge; ma la violenza sottile e continuata nel tempo da parte di chi ha tutto l’agio di giocare sul “proprio”. C’è la mercificazione e l’inganno di chi non si fa scrupolo di manipolare le menti e dispone il corpo delle persone: mettendo la ragazzina a disposizione degli amici (ben 10 suoi scagnozzi quasi tutti maggiorenni). Lo stupratore principale, che di età fa ben 30 anni, fa il finto fidanzato di una bambina senza vergognarsi nel paese o meglio sentendosi al di sopra di ogni giudizio e censura in quanto rampollo della famiglia di ‘ndrangheta dominante: i Lamonte, come sanno tutti. Il contesto è tale che quando il padre della ragazzina va a protestare presso il genitore dell’aguzzino che è lo stesso boss del paese, non trova sostegno alcuno e, quando la ragazzina stessa si trova un nuovo e vero fidanzato, quelli della banda glielo pestano a sangue perché toglie loro il “giocattolo”, cioè lei! Se tutto questo non è mafia di che cincischiamo?
Prepotenza sfrenata e arroganza senza limiti in un contesto di dominio sul territorio che è l’altro e più grosso scandalo della questione perché segno delle protezioni potentissime su cui potevano contare gli aguzzini (altro che l’omertà della gente come ogni volta vogliono far credere). Se altre colpe ci sono, sono di quelli che sostengono la cosca allacciati con essa da fili invisibili ma solidissimi in decenni di potere. Ma questa sarebbe un’altra lunga storia da raccontare e riguarda la Calabria intera.
Sulla fiaccolata di stasera 9 settembre – per finire – penso che (pur senza stima verso quasi tutte le sigle che la promuovono) sia pur meglio del silenzio più sordo e totale anche se il titolo stesso di “marcia silenziosa” la dice lunga sul fatto che vogliano fare le nozze con i fichi secchi.
Me li immagino – e mi pare di vederli – gli ipocriti di taluni rappresentanti delle istituzioni, e delle associazioni a usi delle parate, in prima linea dietro i gonfaloni e le bandiere; e so sin di adesso che marceranno verso il nulla nelle strade di Melito senza un obiettivo simbolico come, ad esempio di andare fin sotto la casa di quel “boss” a cui un padre “debole” (ma non insensibile) è andato vanamente a implorare il rispetto per sua figlia. Sarebbe il modo come farlo vergognare almeno un po’ e un – seppur minimo – risultato concreto della manifestazione. Ma questo è – naturalmente – solo un sogno di una sera di fine estatecominciata dalla monnezza e terminata (purtroppo) nella zozzeria.

fonte:Rocco Palamara per InAspromonte.it

mercoledì 7 settembre 2016

TERREMOTI:IN CALABRIA SOLO UN COMUNE SU DUE HA ADOTTATO IL PIANO DI EMERGENZA PREVISTO DALLA LEGGE. MANCULICANI !!




CALABRIA al quart’ultimo posto su scala nazionale per i piani di emergenza. Le tragedie conosciute nella storia, e soprattutto nella memoria più recente, sembrano avere insegnato poco agli amministratori locali che non si sono ancora dotati di uno strumento fondamentale in caso di calamità.
La Protezione civile ha ricevuto solo 219 piani di emergenza su un totale di 409 Comuni calabresi, pari al 54%, e questa lentezza è ancora più grave se si considera che la punta dello Stivale italico è classificata a rischio.
L’intero territorio regionale è diviso in zona 1 e zona 2, che individuano aree dove possono manifestarsi terremoti forti e fortissimi. Misure che, in termini geologici e sociali, sono molto pericolosi per la vita umana. Solo Campania, Lazio e Sicilia hanno fatto peggio della Calabria, con percentuali inferiori al 50 per cento. Ma il dato calabrese non deve comunque far sorridere troppo.

La Protezione civile nazionale ha una mappa aggiornata a un anno fa nella quale sono riportati tutti i Comuni in regola con i piani di emergenza e quelli che ancora non si sono dotati di questo strumento. Perché è importante definire il documento di Protezione civile? La struttura del piano si articola in tre parti: la prima «raccoglie tutte le informazioni sulle caratteristiche e sulla struttura del territorio»; la seconda riguarda i lineamenti della pianificazione, ossia vengono stabiliti gli obiettivi da conseguire «per dare un’adeguata risposta di protezione civile ad una qualsiasi situazione d’emergenza, e le competenze dei vari operatori»; infine il modello d'intervento «assegna le responsabilità decisionali ai vari livelli di comando e controllo, utilizza le risorse in maniera razionale, definisce un sistema di comunicazione che consente uno scambio costante di informazioni». Il piano di emergenza è fondamentale perché individua tutti gli attori in movimento nella gestione delle conseguenze di una calamità e li coordina.

Appare tutt’altro che scontato, altrimenti, individuare chi fa cosa durante un’emergenza. La Protezione civile spiega così gli obiettivi: «assegna la responsabilità alle organizzazioni e agli individui per fare azioni specifiche, progettate nei tempi e nei luoghi, in un’emergenza che supera la capacità di risposta o la competenza di una singola organizzazione»; aspetto non meno importante «descrive come vengono coordinate le azioni e le relazioni fra organizzazioni; descrive in che modo proteggere le persone e la proprietà in situazioni di emergenza e di disastri»; e poi «identifica il personale, l’equipaggiamento, le competenze, i fondi e altre risorse disponibili da utilizzare durante le operazioni di risposta»; infine «identifica le iniziative da mettere in atto per migliorare le condizioni di vita degli eventuali evacuati dalle loro abitazioni».
La situazione calabrese è divisa a metà poiché solo il 54% dei Comuni si è dotato di un piano di emergenza mentre il rimanente 46% non lo ha ancora presentato, e di questi ultimi i Comuni si trovano in zona 1 e in zona 2 cioè molto pericolose. Partendo dal Pollino, i Comuni che non hanno ancora un piano di emergenza sono Morano, Laino Borgo, Frascineto, Civita, Firmo. Sull’alto Jonio cosentino risultano inadempienti Montegiordano, Roseto Capo Spulico, Castroregio.
Sul Tirreno cosentino la maglia rossa va a Diamante, San Nicola Arcella, Grisolia, Bonifati, Acquapesa, Guardia Piemontese, Paola. A fare compagnia a queste località nell’entroterra bruzio si accodano Fagnano Castello, Sant'Agata d'Esaro, Malvito, San Sosti, San Demetrio Corone, Tarsia. L’elenco continua sulla costa jonica meridionale cosentina con Mirto Crosia, Cariati, e poi verso la Sila con Paludi, Longobucco, Bocchigliero, San Giovanni in Fiore, oltrepassando i confini provinciali e attivando al crotonese con Savelli, Caccuri, Roccabernarda, San Mauro Marchesato, Scandale, Rocca di Neto, Casabona, Strongoli, Umbriatico, Carfizzi, persino il capoluogo Crotone, Cutro, Isola Capo Rizzuto.
Nel catanzarese i Comuni senza piano di emergenza sono Botricello, Belcastro, Sersale, Cerva, Soveria Simeri, Simeri Crichi, Magisano, Fossato Serralta, Cicala, Gasperina, Satriano, Santa Caterina dello Jonio. Fin qui l’elenco parziale dei soli Comuni inadempienti che si trovano in zona sismica 2, dove cioè possono verificarsi terremoti forti. Ma ci sono molti altri Comuni che non si sono dotati di un piano di emergenza e si trovano in zona 1, dove potrebbero manifestarsi sismi classificati come “fortissimi” dai geologi.
Rischio zona 1
Tra questi, ad esempio, Mongrassano, San Martino di Finita e San Benedetto Ullano che notoriamente si trovano su una faglia da tempo monitorata. Oppure Rose e Castiglione cosentino. Sulla costa tirrenica cosentina la maglia nera va a San Lucido, Falconara, Longobardi, Belmonte, Lago. E poi Grimaldi, Malito, Dipignano, Paterno, Mangone, Cellara, Aprigliano, Pedace, Spezzano Piccolo, Spezzano della Sila, Casole Bruzio (tutte zone dove qualche anno fa, durante uno sciame sismico, i cittadini dormirono in auto perché impauriti), Lappano, Rovito, Parenti, Bianchi, Pedivigliano. Andando verso il centro, nel catanzarese sono sprovvisti di piano di emergenza, pur ricadendo in zona sismica 1, Soveria Mannelli, Carlopoli, San Mango d'Aquino, Motta Santa Lucia, Conflenti, Platania, Lamezia Terme, Maida, San Pietro a Maida, Curinga, Jacurso, Amaroni, Palermiti, Vallefiorita, Centrache, Cenadi, Gagliato, Cardinale, Torre di Ruggiero.
Decisamente tragica è la situazione in provincia di Vibo Valentia, dove solo quattro Comuni hanno presentato i piani di emergenza.
fonte:Annalia Incoronato per il quotidianodelsud.it

E per finire diamo uno sguardo alla provincia di Reggio. Anche qui luci ed ombre. La maggior parte dei comuni di quella che é considerata, visti i precedenti, zona a rischio 1, quindi con terremoti catastrofici, hanno presentato un piano di emergenza e quindi risultano in regola. Ma ve ne sono molti altri e tra questi alcuni molto popolosi, che del piano proprio non hanno mai sentito parlare( vale la pena ricordare che la legge 100 del 12 luglio 2012 ne richiedeva l´approvazione entro 90 giorni dall´entrata in vigore della norma). Ecco l´elenco degli inadempienti: Bagnara, Cittanova, Gioiosa Ionica, Roccella, Mammola, Oppido Mamertina( epicentro del terremoto del 1783), Marina di Gioiosa Ionica, Bova,Montebello Ionico,Brancaleone,San Ferdinando, Villa San Giovanni, Seminara,Delianuova, San Procopio ed altri piccoli comuni della locride.  
A questo punto speriamo che gli amministratori di quasi la metá dei comuni calabresi si facciano un bell´esame di coscienza e provvedano al piú presto a mettersi in regola adottando il piano d´emergenza previsto dalla legge. Altrimenti é inutile presentarsi, dopo, con le lacrimucce agli occhi davanti ai microfoni per dire che é tutta colpa del destino.
(T.P.)
http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/piani_di_emergenza_comuna.wp( per saperne di piú).

martedì 6 settembre 2016

STORIE CALABRESI DI UN TEMPO CHE FU : QUANDO PRIMA DI SPOSARSI SI FACEVANO LE SERENATE -




foto Morizzi Oppido


Come sono lontani i tempi in cui le ragazze in età da marito potevano uscire di casa solo nei giorni di festa per andare a messa e solo se accompagnate dai genitori o da qualche parente stretto! Il computer con le sue mail, facebook con le sue chat e i messaggi privati e i telefonini per parlare a viva voce o comunicare tramite messaggini sms appartenevano ancora ad una generazione futura, ma lontana nel tempo e nell’immaginazione.
Per parlare via cavo, quando ancora il telefono era una mezzo di comunicazione per pochi eletti, bisognava fare ore d’attesa al posto telefonico pubblico, che doveva richiedere la linea al centralino, che dopo qualche ora la restituiva con la voce della persona chiamata. Non parliamo, poi, delle telefonate intercontinentali, quasi impossibili visti i costi stratosferici. Per vedere la donna amata, magari al balcone o in terrazza che stendeva i panni al sole, bisognava passeggiare ore intere sotto la sua abitazione. Rimanevano solo le chiese e il camposanto, luoghi di culto dove tutti potevano accedere, ma senza cacciàri mali nominàti (diffondere notizie per infangare l’onorabilità della ragazza), complice la solita mbasciatùra(ambasciatrice), che organizzava gli incontri per permettere a due innamorati di scambiarsi qualche breve effusione amorosa.

L’amore, dunque, poteva essere fatto di sguardi, se la ragazza aveva il permesso di frequentare le funzioni liturgiche, o di lunghe e interminabili lettere, che raccontavano lo strazio di un amore che si consumava tra languidi sospiri e attese spasmodiche. Ma se i due innamorati erano divorati dal fuoco ardente dell’amore, in tal caso, avrebbero potuto spegnere solo col matrimonio o con la classica fujitìna (scappatella) la loro incontrollabile voglia di anticipare i tempi…
foto Morizzi Oppido
Serenate
A questo tipo di comunicazione si aggiungeva, però, quello più chiaro e suggestivo delle serenate, che i giovani andavano a cantare sotto il balcone della donna amata, di notte, quando tutti dormivano, e soltanto lei non riusciva a prendere sonno.
Vinni mi cantu ccà nta chisti strati
di nott’e notti, si mi canusciti;
port’e finestri chi siti sbarrati,
mi salutati a cu’ d’inta teniti
Con versi popolari come questi, il fidanzato ribadiva alla sua bella l’amore per lei. E l’innamorato che parte da lontano, riesce a superare tutte le difficoltà del viaggio, ben intuendo la gioia che l’aspetta all’arrivo, dove canta così:
Aju partutu di tantu luntanu
e vinni apposta pemmu ndi vidimu,
e li puntuna mi parènu chjanu,
l’arburi riganegli’ e petrusinu.
E ora c’arrivai nta chistu chjanu,
mi sembra ca lu fici lu caminu;
affaccia bella e porgimi la manu,
ccavanti mi fa mali lu surinu

foto Morizzi Oppido
Ma l’amore per la donna amata, spesso, dava sfogo a componimenti davvero originali e di rara bellezza poetica, che solo il cuore del popolo, semplice e contadino, poteva comporre:
Ndaju ‘nu cori quantu a ‘na nuciglia,
vaju cercandu ‘na figghjola bella,
e non mi mporta s’esti picciriglia,
ca mi la crisciu cu viscottineglia,
e quand’è randi mi curcu cu d’iglia,
facimu ‘u jocu di la palumbeglia
Ma destinataria delle serenate non era solo colei che infiammava il cuore dell’innamorato. Di riflesso, qualche volta, la serenata era indirizzata anche alla madre di lei, che non voleva che la figlia si fidanzasse. Al suo cuore, il futuro genero bussava così:
O mamma mamma quantu sirinati
cu ‘na figghjola bella chi ndaviti;
vogghju mi sacciu si la maritati
oppuru si nta casa v’‘a teniti
foto Morizzi Oppido

Succedeva anche che destinatario della serenata, qualche volta, fosse anche il padre, che si opponeva alla realizzazione di un sogno d’amore, gettando nella più cupa disperazione l’uomo che imprecava anche contro la sfortuna:
Occhj nigregli non vi lamentati
ca non è curpa mia, vu’ lu sapiti;
curpa la me’ furtun’ e vostru patri,
non vonnu ca di mia patruna siti
Le serenate non raccontavano solo storie d’amore, ma anche di sdegno e di disperazione per un amore non corrisposto:
Sdegnu chi mi sdegnast’ ‘u cori tantu,
non pozzu mi ti vij’ e mi ti sentu;
quandu viju lu diavulu no schjantu,
ma quandu viju a ttia
schjantu e spaventu
E l’innamorato, che per lei era anche finito in carcere, canta con parole di odio il suo amore finito:
Fu’ carciaratu a li carciari toi
e non venisti mu mi vidi mai.
Tu mi mandasti lu cafè d’aloi
e pe d’amuri toi mi lu pigghjai.
Mò va’ dicendu ca mortu mi voi,
ma pe’ dispettu toi non moru mai.
Ma mori prima tu e la genti toi,
mu si distruggi ssa rrazza chi ndai
Ma quando lo sdegno era alimentato da un odio molto profondo, l’innamorato non aveva peli sulla lingua nel dichiarare alla sua ex-amata/odiata tutto il suo disprezzo:
O facci di ‘na brutta carcarazza,
tu porti migli diavuli pa trizza;
va’ a trovari ccocchjunu mi t’ammazza
c’a mmia mi resta tanta cuntentizza

foto Morizzi Oppido
Le canzoni di sdegno, che erano l’altra faccia dell’amore, hanno da sempre arricchito le pagine della letteratura popolare, quasi sempre orale, facendosi portavoce di un risentimento che sconfinava spesso nella vendetta verbale dell’innamorato, il quale ironizzava sull’onorabilità dell’amata, che lascia il suo innamorato e cede alle promesse di altri spasimanti:
Campana chi si’ fatta di mitagliu
e ‘ncùdini chi batti ogni martegliu,
gaglina cavarcata d’ogni gagliu
e ficu pizzicatu d’ogni arcegliu
Succedeva, qualche volta, che l’innamorato fosse minacciato di morte, nel caso in cui non si fosse allontanato da quella ragazza o avesse continuato a fare di lei l’oggetto delle sue serenate notturne:
E nta sta ruga m’annu minazzatu
ca si passu di ccà je’ campu pocu.
Je’ passu e spassu com’a ‘nu dannatu
pacchì la vita mia la penzu pocu.
Ogniu spicuni ndavi ‘n’omu armatu,
ogni finestra ‘na bampa di focu
Ma anche contro i vicini di casa, che avevano la brutta abitudine di criticare due giovani che parlano senza essere ufficialmente fidanzati, si possono scagliare gli strali del risentimento dell’innamorato:
E nta sta ruga nc’è ‘nu malu diri
ca jeu mancu cu ttia pozzu parlari;
subitamenti si mentunu a diri:
«Chiglia è la nnamurata di lu tali.
Focu mi cadi di li ciaramidi
e pammi bruscia cu’ ndi parla mali»
Una volta si diceva che, senza le malelingue, anche i preti si sarebbero potuti sposare, per cui, nei nostri paesi, ogni storia d’amore è sempre stata oggetto delle più disparate dicerie, col rischio – spesso frequente per la ragazza – di non sposarsi più o di essere bollata come donna poco seria.
foto Morizzi Oppido

fonte:Franco Blefari InAspromonte.it

sabato 3 settembre 2016

MA SONO I NOSTRI FIGLI GLI STUPRATORI DELLA RAGAZZINA DI MELITO PORTO SALVO ?

Risultati immagini per melito porto salvo
Peró siamo tutti religiosi - Processione di Maria SS di Porto Salvo


Per lei, quel ragazzo era il sogno di trovare l'amore che in famiglia non trovava più. Ma sono bastati pochi mesi perché il principe azzurro si trasformasse in un orco, capace di offrirla "in regalo" a tutti i suoi amici, che per quasi due anni ne hanno abusato in ogni modo.
IL BRANCO È questo l'inferno vissuto da una ragazzina di Melito Porto Salvo, violentata, ricattata e costretta al silenzio da un branco capeggiato dal Giovanni Iamonte, il figlio del boss Remingo. A lui, come ad altre sette persone i carabinieri del Comando provinciale e della compagnia di Melito Porto Salvo, hanno stretto le manette ai polsi questa mattina per ordine del gip, che ha disposto il carcere per Daniele Benedetto (21 anni), Pasquale Principato (22 anni), Michele Nucera (22 anni), Davide Schimizzi (22 anni), Lorenzo Tripodi (21 anni), Antonio Verduci (22 anni). Insieme a loro è finito dietro le sbarre per ordine del gip presso il Tribunale dei Minori anche il più giovane del branco, G. G., oggi diciottenne, ma minorenne all'epoca dei fatti.

branco
(Benedetto, Iamonte, Nucera, Principato, Schimizzi, Tripodi e Verduci)
DIARIO DI ORDINARIA SCHIAVITÙ Sono loro – concordano gli inquirenti – i responsabili dell'inferno in cui la tredicenne è precipitata alla fine del 2013, quando il suo sogno d'amore si è trasformato in un incubo di violenze seriali, minacce, lesioni e stupri. Per quasi due anni il copione è stato sempre lo stesso. Almeno due volte la settimana, alcuni di loro si presentavano davanti a scuola, obbligavano la ragazzina a salire in macchina e la portavano a casa di Iamonte, dove era costretta ad avere rapporti con tutti quelli del gruppo che ne avessero voglia, anche contemporaneamente. A volte le violenze avvenivano addirittura prima, durante il tragitto in macchina. E tutte venivano fotografate. Quelle immagini sono diventate un'arma micidiale nelle mani del branco.
RICATTO Quando la tredicenne tentava di reagire, quando neanche la violenza con cui le strappavano i vestiti di dosso riusciva a placarla, iniziavano le minacce. Se quelle foto fossero state rese pubbliche, lei sarebbe stata una "disonorata", una reietta, per il paese come per la sua famiglia, che neanche allontanandola sarebbe riuscita a cancellare l'onta. Disperata, terrorizzata, la ragazzina chinava la testa e subiva. Del resto, chi parlava lo faceva in nome e per conto di Giovanni Iamonte, il figlio del boss.
IL PESO DEI IAMONTE «Quando lui la guardava – dice il procuratore aggiunto Gaetano Paci, che si è occupato in prima persona dell'indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». A Melito, Iamonte vuol dire un regno che da quarant'anni si fonda su sangue e sopraffazione, denaro e violenza. E lei, che la famiglia la conosceva da vicino, fin da quando la mamma lavorava a servizio del boss Remingo, non riusciva a ignorarlo. Per questo terrorizzata, soggiogata da un branco numeroso, tutto di ragazzi molto più grandi di lei, sopportava. O almeno tentava di farlo.
NEL REGNO DELL'OMERTÀ «Questi abusi – dice serio il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho – hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l'omertà regna sovrana e la sopraffazione è l'unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la ragazzina ha provato a ribellarsi, per conquistare una vita normale, uguale a quella di tutte le sue coetanee.
Nonostante le violenze subite, ha trovato la forza di iniziare una nuova storia d'amore con un altro ragazzo, ma il branco non glielo ha permesso. Quando i sette componenti del gruppo sono venuti a saperlo, lo hanno picchiato selvaggiamente, costringendolo a non vedere più la tredicenne e imponendogli il silenzio. E lui si è piegato. Non ha denunciato e ha voltato le spalle alla ragazzina, abbandonandola ai propri aguzzini. Un comportamento che per l'ormai quattordicenne si è trasformato in nuove violenze.
MESSAGGI Un incubo fatto emergere in un tema a scuola o confessato – solo a grandi linee – a poche persone e intuito forse troppo tardi dai genitori, che hanno aspettato fino all'estate 2015 per chiedere aiuto. Prima, il padre della ragazza, lontano parente di Iamonte, ha preferito affrontare direttamente il branco, per chiedere loro di lasciare in pace la figlia. Ma con il passare dei mesi, anche lui probabilmente si è reso conto che quella tregua non era abbastanza.
LA DENUNCIA DEI GENITORI Nell'estate del 2015 si sono presentati al comando accennando in maniera vaga alla vicenda, ma solo dopo diversi mesi hanno chiesto ad un avvocato di fiducia di recarsi in Procura. Da allora, i carabinieri del comando provinciale diretto dal colonnello Lorenzo Falferi e della compagnia di Melito, si sono messi all'opera e la macchina delle indagini è partita. Nonostante il muro di omertà e l'intimidazione seriale di ogni possibile testimone da parte del branco, gli investigatori sono riusciti a identificare tutti gli aguzzini della tredicenne ed a trovare riscontri alla vicenda che la ragazzina ha progressivamente raccontato in dettaglio.
RIBELLIONE NECESSARIA Un successo investigativo che non riesce a cancellare l'amaro in bocca per l'ennesima storia di violenza che si consuma, senza che nessuno si azzardi a denunciare. «Tutto questo - tuona Cafiero de Raho - è successo senza che nessuno facesse niente. Questa è una rappresentazione plastica della schiavitù cui è sottoposta la gente. Quando si sveglieranno i cittadini? Quando capiranno che il nemico non è lo Stato, ma la 'ndrangheta?».

fonte: alessia candito per il corrieredellacalabria.it