“La Calabria brucia”, “La Calabria è in fiamme”. Sono i titoli che i giornali calabresi e nazionali hanno dedicato all’infittirsi degli incendi del rovente luglio calabrese, diventato una drammatica emergenza. Titoli tutto sommato rassicuranti che evocano un destino cinico e baro che s’è abbattuto sulla nostra terra disgraziata. Invece (li abbiamo fatti anche noi e chiediamo scusa), sono certamente di grande effetto ma depistanti. Nascondono come stanno realmente le cose. La titolazione giusta sarebbe stata: “I calabresi bruciano la Calabria” con un bel catenaccio: “Approfittando del caldo torrido e dei venti i calabresi (ma anche i siciliani, i pugliesi e via elencando) distruggono e pugnalano i propri territori.
E’ noto – ma lo si tiene spesso nascosto – che gli incendi per autocombustione sono rarissimi in natura. La grandissima parte delle fiamme che divorano montagne verdi e macchie mediterranee, arrivando spesso a ridosso o perfino dentro gli abitati o i villaggi turistici, sono frutto dell’attività dei piromani. Secondo il dossier dei Verdi “Le mani sporche degli incendi”, curato da studiosi ed esperti, negli ultimi 15 anni il 60,4% degli incendi sono stati volontari, il 9,7 involontari, sul 2,5 ci sono dubbi, il 26% per cause non classificabili. Solo e soltanto l’1,2 per cento è stato provocato da cause naturali. Dati statistici medi nazionali. Ma a Sud e in Calabria la percentuale è di certo molto più alta.
I piromani non sono dei matti. Le loro ragioni, sempre sporche e corpose, vanno cercate nel dopo incendio. Nel processo che riparte dalla cenere per tornare al verde. Nell’uso e nell’utilizzo dei territori devastati. Nella massa di danaro che viene mobilitato da subito per spegnere gli incendi e riportare le situazioni in sicurezza. Nelle spese per affrontare l’emergenza: perché un a cosa è usare qualche decina di ore di aerei antincendi, altra è usarli per migliaia di ore. Al di là di quel che si dice non esiste ancora una deterrenza reale all’incendio. E’ uno dei problemi fondamentali.
Detto questo bisogna anche prendere atto che in Calabria c’è forse qualche elemento di ferocia in più. Un accanimento particolare. Una furia distruttiva come di un popolo che insegue con spietata determinazione il sogno di cancellare e far sparire la propria terra.
Il problema va posto in modo esplicito: c’è un rapporto tra l’impennata degli incendi di quest’anno e il disagio crescente che viene percepito dalla società calabrese e soprattutto dalla sua parte più fragile e indifesa? La Calabria impaurita da una prospettiva incerta dopo una lunga fase di crescita del benessere che si era immaginata ormai definitiva, accumula rancore e voglia di vendetta sociale? Nessuno su una questione tanto delicata può avere certezze. Ma di sicuro c’è un fastidio crescente da parte degli abitanti della Calabria verso la propria terra percepita sempre di più come odiosa matrigna. Il rapporto tra incendi e disagio, è un fenomeno antico. Al netto degli interessi di cui abbiamo detto l’incendio che distrugge, vendica e purifica esercita un grande fascino su chi ritiene di non avere alcun altro mezzo per manifestare la propria rabbia. Comunque è impressionante la circostanza che con sempre maggior frequenza le fiamme si scatenino contro luoghi altamente simbolici: il Parco dell’Aspromonte o della Sila, il Parco della biodiversità di Catanzaro, villaggi turistici in cui si affollano “quelli che possono”; e mai come in questo drammatico scorcio d’estate il fuoco era arrivato così vicino (e tanto spesso) ai centri abitati.
Certo, il punto centrale è e resta quello degli interessi sporchi che si muovono attorno alle fiamme. Sono interessi potenti, poco trasparenti, intensamente parassitari. Ma la Calabria, non solo la politica ma tutta, deve fare attenzione. Se si spezza l’intesa sentimentale tra i calabresi e la propria terra non solo sarà tutto più difficile ma diventerà tutto impossibile.
fonte: zoomsud.it
E’ ripartito il programma televisivo di Alessandro Borghese( Sky 1,ndr) che mette a confronto 4 ristoranti e sceglie il migliore, attraverso il voto dei ristoratori interessati oltre al voto aggiuntivo dello stesso presentatore. La prima puntata è stata dedicata alla Calabria e lo svolgimento della trasmissione ha rappresentato plasticamente l’intera realtà Calabrese. Una realtà lacerata, il cui filo conduttore rimane quello del tutti contro tutti con in più la voglia rabbiosa di non riconoscere mai meriti altrui. Trova spazio tra i calabresi la decisa volontà di demonizzare sempre e comunque l’avversario facendolo diventare un nemico brutto, cattivo, incapace e deficiente.Lo stesso Borghese, come intimorito da tanta sciagurata determinazione, è stato costretto ad evidenziarlo a fine trasmissione con grande imbarazzo sia in relazione ai voti dati dai ristoratori agli altri ristoratori sia, soprattutto, ai commenti trasmessi dalla televisione. Né è stato difficile avvertire la eco dei giudizi sicuramente espressi, non utilizzati nel programma e finiti fuori onda. Ma l’aggettivo finale scelto da Borghese per definire il modo in cui i calabresi si sono confrontati tra loro è stato micidiale: “spietati”, s’è lasciato sfuggire.E il modo di procedere dei nostri ristoratori in grandissima parte rispecchia l’agire e l’essere della società calabrese e riflette le sue intere classi dirigenti politiche, imprenditoriali, culturali, professionali. E’ questo uno dei nodi che condannano la Calabria all’immobilismo, alla marginalità, al sottosviluppo economico, sociale, culturale e politico. Perché gli altri e il resto del paese dovrebbe avere fiducia e stima dei calabresi se i calabresi per primi non ne nutrono alcuna per gli altri calabresi?In Calabria, questo è un dato di fatto da cui partire per una maggiore comprensione della nostra situazione. Emerge, se si accantona la retorica, l’assenza complessiva di una cultura dell’integrazione. E’ inesistente la costruzione di reti tra soggetti che possono - o meglio, potrebbero - dare una spinta positiva e quando ciò si verifica è l’eccezione e non la regola. L’esasperato individualismo spinge ad un egoismo che pone barriere e divisioni che impediscono una sana osmosi di conoscenze ed esperienze e quindi di crescita complessiva. La presunzione che riecheggia più spesso in Calabria è: “Ma chi è quello? Non sa niente, non conta niente, non capisce niente…”. La trasmissione di Borghese mi ha fatto ricordare un episodio del 1982 (quasi trenta anni fa) che avevo interamente cancellato e rimosso. Ero studente a Messina e vivevo un’intensa vita universitaria anche politica e culturale. Un grande esponente politico, di rilievo in quell’epoca, volle conoscermi. Nell’incontro privato si sbilanciò con una riflessione sulla Calabria e i suoi abitanti. “I calabresi che vengono a trovarmi - mi disse - avvertono la necessità, prima di dirmi perché mi hanno cercato, di mettere in evidenza le loro qualità eccelse, sempre a loro dire incomprese e poco valorizzate. Poi mi descrivono le persone, con cui io o loro siamo in contatto, come imbecilli e corrotti da allontanare. E naturalmente offrono con cattiveria e cinismo la loro pronta disponibilità a sostituirli”.Ancora oggi, in Calabria si vivono spesso con cattiveria i rapporti che non producono immediatamente un vantaggio. Si vive nell’isolamento individuale e con ferocia si lotta per affermare le proprie capacità azzerando le qualità degli altri senza troppo andare per il sottile. Da qui l’impoverimento sempre più marcato di una società che avrebbe la necessità e l’urgenza di crescere insieme. Calabria e calabresi sembrano ignorare che solo con lo sviluppo complessivo, di tutti e aperto a tutti, s’innesca un meccanismo di crescita e opportunità per tutti. Abbiamo bisogno di tantissimi ristoranti buoni perché la rete e l’offerta gastronomica ampia fa crescere la domanda di ristorazione.Vale per la ristorazione ma anche, vorrei dire soprattutto, per tutti gli altri settori e le altre attività possibili e necessarie per la Calabria. Prima si capirà meno, noi calabresi, ci faremo male da soli.
Demetrio Battaglia per Zoomsud.it