venerdì 3 novembre 2017

DROGA DELL´ISIS PER 50 MILIONI DI EURO SEQUESTRATA A GIOIA TAURO

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La sezione Antiterrorismo della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, a seguito di indagini svolte dai finanzieri del Comando Provinciale reggino in collaborazione con l’Ufficio antifrode della Dogana di Gioia Tauro, ha disposto il sequestro di un ingente quantitativo di tramadolo sbarcato al porto gioiese, proveniente dall’India e diretto in Libia. L’input investigativo è partito dal II Gruppo della Guardia di Finanza di Genova che nell’ambito di una operazione dello scorso maggio, aveva proceduto ad un analogo sequestro nel porto del capoluogo ligure.
La vendita al dettaglio del farmaco sequestrato avrebbe fruttato circa 50 milioni di euro, in quanto ciascuna pastiglia, sul mercato nero nord africano e medio orientale, viene venduta a circa 2 euro. Il tramadolo è una sostanza oppiacea sintetica, il cui uso è stato ripetutamente accertato negli scenari di guerra mediorientali, tanto da essere soprannominato “droga del combattente”, essendo questo utilizzato sia come eccitante, sia per aumentare le capacità di resistenza allo sforzo fisico.
Secondo le informazioni condivise con fonti investigative estere, il traffico di tramadolo sarebbe gestito direttamente dall’IS (Daesh), al fine di finanziare le attività terroristiche che l’organizzazione pianifica e realizza in ogni parte del mondo e parte dei proventi illeciti derivanti dalla vendita di tale sostanza, sarebbero destinati a sovvenzionare gruppi di eversione e di estremisti operanti in Libia, in Siria ed in Iraq.
L’operazione si è avvalsa infatti anche della preziosa collaborazione della D.E.A. americana e della Direzione centrale dei servizi antidroga presso il ministero dell’Interno e del supporto del comando generale della Guardia di Finanza.
Anche la droga dell’Isis passa da Gioia Tauro. È questo il dato che emerge dal maxi sequestro eseguito venerdì notte dagli uomini della Guardia di Finanza per ordine della sezione Antiterrorismo della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, che ha permesso di individuare un importante carico di tramadolo, del valore di 50 milioni di euro. Oppiaceo commercializzato fin dagli anni Ottanta come antidolorifico, oggi il tramadolo è usato come sostanza base per la sintesi della cosiddetta “droga del combattente”. Mischiato ad altri componenti, anche banale caffeina, il tramadolo si converte infatti in una potente anfetamina, in grado di cancellare paura, dolore e fatica. Per questo Daesh – lancia l’allarme la Dea statunitense – da tempo ha messo le mani su traffico e spaccio della sostanza.
Utilizzato a scopo “ricreativo” nei party esclusivi dei Paesi del Golfo negli anni Novanta, a partire dagli anni Duemila il tramadolo ha iniziato a essere diffuso nei territori di jihad per “motivare” le truppe. E non solo. Tracce della medesima sostanza sono state trovate sia nell’appartamento degli attentatori che hanno firmato il massacro del Bataclan, sia in quello del kamikaze che ha colpito in Tunisia. Inizialmente prodotto principalmente in Medio Oriente, secondo quanto emerso dalle ultime indagini il tramadolo adesso verrebbe sintetizzato in grandi quantità anche in aree diverse del globo, quindi spedito a bordo di cargo nel Mediterraneo. A maggio, un altro carico della medesima sostanza è stato sequestrato al porto di Genova. Per questo, inquirenti e investigatori reggini da mesi monitoravano con attenzione.
  «A Gioia Tauro passa di tutto e in fondo – dice il procuratore aggiunto Gaetano Paci, responsabile per la Dda di Reggio Calabria dell’area tirrenica – non ci possiamo stupire più di tanto nell’individuare anche traffici di questo genere di sostanze». Anche perché da tempo, aggiunge, «abbiamo cognizione di rapporti fra la ‘ndrangheta e organizzazioni del Medio Oriente. Nonostante il porto sia diventato zona meno “sicura” per i clan grazie alla pressione investigativa, abbiamo individuato diversi vettori e famiglie riconducibili alla ‘ndrangheta che sembrano impegnati in traffici di vario genere con organizzazione dell’area mediorientale». Per ora, spiega il magistrato sono solo «tasselli che si sta cercando di mettere insieme» ma – sottolinea – «ci sono sviluppi in corso».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

sabato 12 agosto 2017

" QUANDU U PISCI PUZZA DA TESTA " : DUE MESI E MEZZO DI VACANZA PER I CONSIGLIERI REGIONALI CALABRESI


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Ben venga la fibrillazione politica che ha fatto slittare le sedute convocate per l’8 e il 9 agosto. Per i consiglieri regionali calabresi l’appuntamento, a questo punto, è fissato per l’11 settembre. E così, intanto, possono godersi una vacanza di due mesi e mezzo. L’ultima riunione dell’assemblea legislativa risale infatti al 29 giugno: due ore e quattro minuti di impegno per votare dodici proposte di legge, undici provvedimenti amministrativi e un pugno di nomine e mozioni, oltre a una breve commemorazione del calabrese Stefano Rodotà. Tutto a ritmo serrato, prima del congedo per una pausa tanto lunga da indurre due parlamentari di Forza Italia, Roberto Occhiuto e Jole Santelli, a presentare un’interrogazione al ministro degli Affari regionali.

E se d’estate l’agenda si svuota, nel resto dell’anno non è certo fitta. Nel 2017 il Consiglio si è riunito appena sei volte: una al mese da gennaio a marzo, due a maggio e una, appunto a fine giugno. Leggendo i verbali si scopre che, in questi sette mesi e mezzo, l’aula consiliare è stata impegnata per 1.199 minuti: uno in più e si sarebbe toccato il picco poco vertiginoso delle venti ore di attività. Per avere un metro di confronto, i colleghi lombardi nello stesso arco temporale sono stati convocati ventitré volte, quelli dell’Emilia Romagna quattordici, quelli campani dodici. In Piemonte hanno eguagliato in poco più di un mese estivo il numero di sedute che i calabresi hanno messo insieme nei 227 giorni tra Capodanno e ferragosto. E alla Regione Lazio si sono riuniti addirittura dieci volte tra luglio e l’inizio di agosto, periodo nel quale gli scranni di Palazzo Campanella erano già chiusi per ferie.

L’annata in corso non è nemmeno un’eccezione per la politica regionale calabrese: il 2016 ha chiuso con sedici sedute, il 2015 con quindici. Al contrario, sono costantemente da brividi i ritmi con i quali vengono sfornate le leggi. Il Consiglio ne ha approvate quarantasette l’anno scorso e quest’anno è già arrivato a quota trentadue, contro le diciannove di Emilia Romagna e Lombardia e le otto della Regione Lazio. Norme che vanno dalla programmazione dell’attività teatrale alla semplificazione amministrativa, dalla revisione dei consorzi di bonifica alla realizzazione di impianti golfistici. E che rischiano però di incepparsi quando toccano i temi più insidiosi. Come quella che voleva reintrodurre pensione e trattamento di fine mandato per i consiglieri, ritirata dopo un’ondata di indignazione popolare. O quella sui referendum per la fusione dei Comuni, che ha causato alla prima applicazione un ricorso al Tar perché non si riuscirebbe a chiarire cosa fare quando solo uno dei paesi coinvolti nella consultazione si pronuncia contro l’accorpamento.

Verrebbe da dire che in media si approva una legge ogni trentasette minuti, se non fosse che nel frattempo si riesce a dare il via libera anche a un’infinità di provvedimenti amministrativi. Tempo per discutere i testi? Pochissimo. E zero sedute dedicate a question time con la giunta. Ma non va meglio nelle commissioni: quella che nel 2017 si è riunita di più è la terza, che deve fare i conti con la sanità indebitata e disastrata e ha quindi inanellato dieci convocazioni. Per il resto, i consiglieri della quarta commissione (che si occupa di territorio e ambiente) si sono incontrati nove volte,
gli altri viaggiano sotto alla media di una convocazione al mese. Sommando queste ultime alle sei sedute dell’aula ed escludendo chi fa parte di più commissioni, fanno una dozzina di giorni trascorsi a Palazzo Campanella da gennaio a oggi. Eccetto le assenze giustificate, ovviamente.
fonte:Andrea Gualtieri per Repubblica.it

sabato 5 agosto 2017

E´ SCONTRO A PARAVATI TRA IL VESCOVO E LA FONDAZIONE VOLUTA DA NATUZZA EVOLO


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E' scontro a Paravati, nel Vibonese, fra il vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, Luigi Renzo, e la Fondazione "Cuore Immacolato di Maria rifugio delle anime" voluta dalla mistica Natuzza Evolo, deceduta nel 2009. Il vescovo aveva chiesto delle modifiche allo Statuto della Fondazione, riformando la composizione del Cda e regolamentando i rapporti fra la diocesi, responsabile del culto, e la Fondazione, proprietaria della Chiesa a Paravati sorta per volonta' di Natuzza Evolo. Davanti alla decisione del Cda della Fondazione di respingere le modifiche il vescovo ha revocato il decreto che autorizzava le attivita' religiose e di culto nella chiesa non ancora consacrata, vietando inoltre la raccolta di offerte per le celebrazioni liturgiche.
Come reazione alla decisione del vescovo, tre sacerdoti facenti parte della Fondazione (contrari alle modifiche richieste dal vescovo) si sono dimessi e il Cda della Fondazione ha nominato un nuovo presidente, al posto del dimissionario don Pasquale Barone, nella persona dell'avvocato Marcello Colloca, vicino alla posizioni del vescovo, che avrebbe agito nei confronti della Fondazione con l'avvallo dell'ufficio legale della Cei. Questo passo dovrebbe riportare serenita' nella vicenda e rendere superfluo l'eventuale invio in Calabria di una visita canonica. La mistica di Paravati e' deceduta nel 2009 "in odore di santita'" e l'avvio del processo di canonizzazione ha gia' ottenuto il via libera del vescovo Renzo e dalla Conferenza episcopale calabrese mentre e' atteso il via libera della Congregazione delle cause dei santi, che non potra' esserci se continueranno tensioni e conflitti. Natuzza ha dedicato l'intera vita alla preghiera, portando sul corpo i segni di misteriosi fenomeni (ferite sanguinanti e stimmate) che non hanno mai trovato alcuna spiegazione scientifica.

fonte: AGI

sabato 29 luglio 2017

CHI DA FUOCO ALLA CALABRIA CHE BRUCIA ? I CALABRESI !!



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“La Calabria brucia”, “La Calabria è in fiamme”. Sono i titoli che i giornali calabresi e nazionali hanno dedicato all’infittirsi degli incendi del rovente luglio calabrese, diventato una drammatica emergenza. Titoli tutto sommato rassicuranti che evocano un destino cinico e baro che s’è abbattuto sulla nostra terra disgraziata. Invece (li abbiamo fatti anche noi e chiediamo scusa), sono certamente di grande effetto ma depistanti. Nascondono come stanno realmente le cose. La titolazione giusta sarebbe stata: “I calabresi bruciano la Calabria” con un bel catenaccio: “Approfittando del caldo torrido e dei venti i calabresi (ma anche i siciliani, i pugliesi e via elencando) distruggono e pugnalano i propri territori.

E’ noto – ma lo si tiene spesso nascosto – che gli incendi per autocombustione sono rarissimi in natura. La grandissima parte delle fiamme che divorano montagne verdi e macchie mediterranee, arrivando spesso a ridosso o perfino dentro gli abitati o i villaggi turistici, sono frutto dell’attività dei piromani. Secondo il dossier dei Verdi “Le mani sporche degli incendi”, curato da studiosi ed esperti, negli ultimi 15 anni il 60,4% degli incendi sono stati volontari, il 9,7 involontari, sul 2,5 ci sono dubbi, il 26% per cause non classificabili. Solo e soltanto l’1,2 per cento è stato provocato da cause naturali. Dati statistici medi nazionali. Ma a Sud e in Calabria la percentuale è di certo molto più alta.

I piromani non sono dei matti. Le loro ragioni, sempre sporche e corpose, vanno cercate nel dopo incendio. Nel processo che riparte dalla cenere per tornare al verde. Nell’uso e nell’utilizzo dei territori devastati. Nella massa di danaro che viene mobilitato da subito per spegnere gli incendi e riportare le situazioni in sicurezza. Nelle spese per affrontare l’emergenza: perché un a cosa è usare qualche decina di ore di aerei antincendi, altra è usarli per migliaia di ore. Al di là di quel che si dice non esiste ancora una deterrenza reale all’incendio. E’ uno dei problemi fondamentali.

Detto questo bisogna anche prendere atto che in Calabria c’è forse qualche elemento di ferocia in più. Un accanimento particolare. Una furia distruttiva come di un popolo che insegue con spietata determinazione il sogno di cancellare e far sparire la propria terra.

Il problema va posto in modo esplicito: c’è un rapporto tra l’impennata degli incendi di quest’anno e il disagio crescente che viene percepito dalla società calabrese e soprattutto dalla sua parte più fragile e indifesa? La Calabria impaurita da una prospettiva incerta dopo una lunga fase di crescita del benessere che si era immaginata ormai definitiva, accumula rancore e voglia di vendetta sociale? Nessuno su una questione tanto delicata può avere certezze. Ma di sicuro c’è un fastidio crescente da parte degli abitanti della Calabria verso la propria terra percepita sempre di più come odiosa matrigna. Il rapporto tra incendi e disagio, è un fenomeno antico. Al netto degli interessi di cui abbiamo detto l’incendio che distrugge, vendica e purifica esercita un grande fascino su chi ritiene di non avere alcun altro mezzo per manifestare la propria rabbia. Comunque è impressionante la circostanza che con sempre maggior frequenza le fiamme si scatenino contro luoghi altamente simbolici: il Parco dell’Aspromonte o della Sila, il Parco della biodiversità di Catanzaro, villaggi turistici in cui si affollano “quelli che possono”; e mai come in questo drammatico scorcio d’estate il fuoco era arrivato così vicino (e tanto spesso) ai centri abitati.

Certo, il punto centrale è e resta quello degli interessi sporchi che si muovono attorno alle fiamme. Sono interessi potenti, poco trasparenti, intensamente parassitari. Ma la Calabria, non solo la politica ma tutta, deve fare attenzione. Se si spezza l’intesa sentimentale tra i calabresi e la propria terra non solo sarà tutto più difficile ma diventerà tutto impossibile.

fonte: zoomsud.it

martedì 18 luglio 2017

COME SI SONO COMPORTATI IN TV I 4 RISTORATORI CALABRESI ? " SI MANGIARU PE CANI "


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E’ ripartito il programma televisivo di Alessandro Borghese( Sky 1,ndr) che mette a confronto 4 ristoranti e sceglie il migliore, attraverso il voto dei ristoratori interessati oltre al voto aggiuntivo dello stesso presentatore. 

La prima puntata è stata dedicata alla Calabria e lo svolgimento della trasmissione ha rappresentato plasticamente l’intera realtà Calabrese. Una realtà lacerata, il cui filo conduttore rimane quello del tutti contro tutti con in più la voglia rabbiosa di non riconoscere mai meriti altrui. Trova spazio tra i calabresi la decisa volontà di demonizzare sempre e comunque l’avversario facendolo diventare un nemico brutto, cattivo, incapace e deficiente.

Lo stesso Borghese, come intimorito da tanta sciagurata determinazione, è stato costretto ad evidenziarlo a fine trasmissione con grande imbarazzo sia in relazione ai voti dati dai ristoratori agli altri ristoratori sia, soprattutto, ai commenti  trasmessi dalla televisione. Né è stato difficile avvertire la eco dei giudizi sicuramente espressi, non utilizzati nel programma e finiti fuori onda. Ma l’aggettivo finale scelto da Borghese per definire il modo in cui i calabresi si sono confrontati tra loro è stato micidiale: “spietati”, s’è lasciato sfuggire.

E il modo di procedere dei nostri ristoratori in grandissima parte rispecchia l’agire e l’essere della società calabrese e riflette le sue intere classi dirigenti politiche, imprenditoriali, culturali, professionali. E’ questo uno dei nodi che condannano la Calabria all’immobilismo, alla marginalità, al sottosviluppo economico, sociale, culturale e politico. Perché gli altri e il resto del paese dovrebbe avere fiducia e stima dei calabresi se i calabresi per primi non ne nutrono alcuna per gli altri calabresi?

In Calabria, questo è un dato di fatto da cui partire per una maggiore comprensione della nostra situazione. Emerge, se si accantona la retorica, l’assenza complessiva di una cultura dell’integrazione. E’ inesistente la costruzione di reti tra soggetti che possono - o meglio, potrebbero - dare una spinta positiva e quando ciò si verifica è l’eccezione e non la regola. L’esasperato individualismo spinge ad un egoismo che pone barriere e divisioni che impediscono una sana osmosi di conoscenze ed esperienze e quindi di crescita complessiva. La presunzione che riecheggia più spesso in Calabria è: “Ma chi è quello? Non sa niente, non conta niente, non capisce niente…”.  

La trasmissione di Borghese mi ha fatto ricordare un episodio del 1982 (quasi trenta anni fa) che avevo interamente cancellato e rimosso. Ero studente a Messina e vivevo un’intensa vita universitaria anche politica e culturale. Un grande esponente politico, di rilievo in quell’epoca, volle conoscermi. Nell’incontro privato si sbilanciò con una riflessione sulla Calabria e i suoi abitanti. “I calabresi che vengono a trovarmi - mi disse - avvertono la necessità, prima di dirmi perché mi hanno cercato, di mettere in evidenza le loro qualità eccelse, sempre a loro dire incomprese e poco valorizzate. Poi mi descrivono le persone, con cui io o loro siamo in contatto, come imbecilli e corrotti da allontanare. E naturalmente offrono con cattiveria e cinismo la loro pronta disponibilità a sostituirli”.

Ancora oggi, in Calabria si vivono spesso con cattiveria i rapporti che non producono immediatamente un vantaggio. Si vive nell’isolamento individuale e con ferocia si lotta per affermare le proprie capacità azzerando le qualità degli altri senza troppo andare per il sottile. 

Da qui l’impoverimento sempre più marcato di una società che avrebbe la necessità e l’urgenza di crescere insieme. Calabria e calabresi sembrano ignorare che solo con lo sviluppo complessivo, di tutti e aperto a tutti, s’innesca un meccanismo di crescita e opportunità per tutti. 

Abbiamo bisogno di tantissimi ristoranti buoni perché la rete e l’offerta gastronomica ampia fa crescere la domanda di ristorazione.

Vale per la ristorazione ma anche, vorrei dire soprattutto, per tutti gli altri settori e le altre attività possibili e necessarie per la Calabria. Prima si capirà meno, noi calabresi, ci faremo male da soli.

Demetrio Battaglia per Zoomsud.it

venerdì 16 giugno 2017

IN QUESTA LETTERA LE SBALORDITIVE PAROLE DI UN SACERDOTE DELLA LOCRIDE CONTRO LE ISTITUZIONI


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Mi chiedevo cosa abbia fatto scaturire questa iniziativa( una fiaccolata a favore dell´ospedale di Locri,ndr.), che pare del tutto lodevole. A volte  non so se viviamo nella realtá  o giochiamo a vivere sulla pelle degli altri. Ora questa iniziativa che avete ritenuto opportuno organizzare insieme al Vescovo( quindi la chiesa come istituzione locale) mi fa pensare - e lo dico - che lascerá il tempo che trova. Perché dico questo, ve lo spiego subito: quando la prima volta ne ho parlato come Cittadino Sacerdote, sono state le "istituzioni stesse" a dirmi " é tempo perso, abbiamo giá fatto una fiaccolata e cosa abbiamo risolto? Nulla ".
Quindi mi viene da pensare che sará l´ennesima perdita di tempo.......
Ma non vi rendete conto che la gente non ha piú fiducia? Ma chi se ne importa di veder sfilare le istituzioni quando il problema rimane sempre com´é rimasto.
Sappiamo benissimo, e voi piú di ogni altro, che il problema non lo si vuole risolvere, l´ospedale non lo si vuole far funzionare,perché c´é un giro talmente sporco intriso anche di malavita, che non permetterá mai che il problema si risolva. Chi sfilerá portando quella fascia tricolore rappresenta il popolo, ma non so quanto questo popolo si senta da egli rappresentato.......
Io, carissime istituzioni farei un gesto piú forte.......Ditelo allo Stato: " Noi istituzioni locali se entro un termine ben preciso non  vedremo attivarsi e questo  unico e solo Ospedale, CONSEGNEREMO TUTTI LE FASCE AL PREFETTO.
Si é parlato troppo e solo promesse sono state fatte.mai fatti. In questo posto non comanda lo Stato perché non c´é, sennó é inammisibile che nessuno - ma proprio nessuno - intervenga.
In questo posto non si progredisce perché vogliono mangiare sempre gli stessi.
dicevano gli antichi : " U PISCI PUZZA DA TESTA ".........

don Antonio Magnoli, sacerdote della Diocesi di Locri-Gerace



Il testo integrale della lettera su InAspromonte.it

martedì 13 giugno 2017

IL FIAMMIFERO DI ACRI PRENDE 258 VOTI E RISCHIA DI DIVENTARE CONSIGLIERE COMUNALE




ACRI Ha avuto 258 preferenze, Angelo Cofone, il candidato consigliere comunale di Acri, diventato una star sui sociali per il video di un comizio scandito da alcune gaffe e da una seria difficoltà nella lettura. "Frosparo" (ovvero fiammifero, per i suoi capelli rossi) come è chiamato Angelo Cofone, è stato il terzo più votato della sua lista. Ad Acri si andrà al ballottaggio domenica 25 giugno tra Pino Capalbo e Anna Vigliaturo, la candidata a sindaco sostenuta da Cofone. 

fonte:corrieredellacalabria.it